mercoledì 7 febbraio 2024

zundapp cuore e acciaio

 




Alle elementari quelli come me, nati nel picco di incremento demografico scatenato dal Miracolo economico, facevano i doppi turni e a me toccava andare a scuola il pomeriggio. Fottuto dal freddo percorrevo tutta via Caccia fino alla Ippolito Nievo trascinando i piedi tra i mucchi di foglie secche degli enormi bagolai che bordavano la strada. Mi avviavo con l’entusiasmo del condannato a morte che percorre il miglio verde verso la classe e la maestra. E in via Caccia c’era e c’è ancora un negozio che vende biciclette, proprio a pochi passi dal campetto dove giocavamo a pallone e dove poi hanno costruito un palazzo con il progetto di un architetto prestigioso e con i materiali con cui si fanno i castelli di sabbia al mare e dopo pochi anni la struttura si è sbriciolata come il pane carasau. Prima di arrivare al negozio di biciclette, se spuntavi da via Passariano dovevi guardare bene se il cancello della vecchia era aperto perché in quel caso il cane merda si sarebbe lanciato contro di te cercando di strapparti un polpaccio a morsi. Il botolo in oggetto era un bastardino bianco e nero che noi chiamavamo Mordeo e che aveva quella attitudine nevrile tipica dei cani troppo assillati dalle vecchie. Bene o male si arrivava davanti a Burra il biciclettaio e in vetrina c’era sempre lei, la maledetta moto da cross in scala ridotta uso bambino. Con motore e carburatore e miscela al due e ruote artigliate. Un sogno vero e proprio. Restavo fermo a guardarla per lunghissimi minuti e immaginavo che sarei arrivato prima o poi alle collinette con quella moto piccola e avrei sfidato quelli grandi con il Caballero truccato e Elisabetta 2, la chiamavamo così perché in classe c’erano tre Elisabette, mi avrebbe baciato. A ben vedere ero brutto anche da piccolo e difficilmente arrivando con la motoretta del nano del circo avrei avuto una possibilità minima di successo ma sognare è sempre lecito. Poi è venuto il tempo della prima e ultima comunione e andavo alla San Quirino a fare catechismo e mi preparavo a quella cosa della confessione dei peccati e alla particola, che è come la buccia del torrone ma più sacra A dire il vero mi preparavo ai regali, soprattutto ai regali. E mio padre a un certo punto mi dice che per la comunione mi regalerà quella moto lì. Ci credeva davvero, mio padre non era un caciaballe, e ci credevo anche io. Siamo andati anche sul Torre a immaginare un circuito da cross che avremmo fatto per imparare a andare sulla moto. Mio padre all’epoca girava con un Guzzi Superalce e ci andava nei posti più assurdi. Insomma io a quel punto passavo davanti alla vetrina e quasi non guardavo perché non volevo rovinarmi la sorpresa. Poi s’avvicinò maggio e la comunione e arrivavano un sacco di parenti e c’erano spese e soprattutto il vecchio televisore aveva fatto un ultimo lamento di morte e s’era spento per sempre. Mio padre una sera si siede con me in cucina e mi inizia a fare un discorso dopo aver fatto i suoi conti nel quadernetto. E mi dice che lui le promesse le mantiene e se voglio la moto la compriamo però ci sarebbe quella storia del televisore nuovo e forse si potrebbe comprare quello al posto della moto ma dovevo decidere io. La moto era solo per me, il televisore era per tutta la famiglia. Costavano più o meno la stessa cifra. Rimasi pietrificato alla luce del neon della cucina a fissare mio padre. Un privilegio personale o un bene comunitario. Lì si stava facendo un uomo. Scelsi il televisore e simulai anche entusiasmo e il sabato andammo alla Mofert a comprarlo. Con il nostro budget portammo a casa un apparecchietto bianco con l’antenna, un comodo portatile diceva mio padre, che prese il posto dell’altro e che occasionalmente mi camallavo nella mia stanza per sentire tutto il privilegio di essere il principale azionista del sistema mediatico di casa mia. Per tantissimi anni quello rimase il nostro televisore e intanto c’era stata l’esplosione delle televisioni private e dovevi avere l’antenna sul tetto del palazzo, ognuno la sua mica la centralizzata come adesso, per vederle. Noi l’antenna non ce l’avevamo e ci arrangiavamo muovendo le antennette, una a cerchio e una telescopica, del nostro apparecchio dei puffi. Ogni sera si doveva trovare la posizione migliore e spesso aggiungvamo oggetti metallici e altro per migliorare la sintonia. A volte mio padre dava dei ceffoni alla tele per regolarla meglio, allora si usava così. Sta di fatto che nelle televisioni private facevano vedere i cartoni dei robot spaziali e io e mio fratello non riuscivamo mai a partecipare alle discussioni robotiche in cortile. Era un mondo complesso e affascinante ma noi eravamo tagliati fuori. Già vedere il porno dell’epoca la notte su Tele Capodistria era faticosissimo perché vedevamo solo il disturbo e sentivamo vaghi mugolii interrotti da scariche e fulmini ma i robot, quelli proprio non si vedevano. Così a un certo punto io e Andrea, mio fratello, ci siamo inventati Zundapp. Era un robot potentissimo chs i vedeva su un canale della Lombardia ma noi riuscivamo a prenderlo. Ne faceva di cotte e di crude e io e mio fratello ogni pomeriggio incantavamo gli altri in cortile raccontando di Zundapp. A un certo punto anche altri hanno cominciato a dire che vedevano Zundapp, è lo stesso meccanismo di Mediugorje, e alla fine Zundapp era il preferito di tutti e non ce n’era per nessuno. Il nostro palazzo, pieno di quelli del boom demografico, tutti con quell’odore di piedi e Big Babol addosso, vedeva ogni pomeriggio Zundapp e poi ce lo raccontavamo.

Ah già, Zundapp esiste ma non è un robot, è il nome di una marca di moto e se passi davanti alla vetrina lo leggi bello chiaro sul serbatoio metallizzato. Forse ancora oggi.



giovedì 4 maggio 2023

preso alla lettera

 


Ti scrivo per consegnarti le parole che la sera al telefono non è semplice gestire, in bilico sul sapore che resta della trattoria e lo spazio di queste stanzette, che annullano qualsiasi istinto territoriale e ti fanno eterno straniero. Ti scrivo in punta di polpastrello, sperando che lo schermo sia più veloce del sangue che carica le mie solite stilografiche. Ti scrivo dopo aver salutato l'alba senza vederla, affogato nel buio necessario regalato dalla tapparella per risparmiare a questo pulsare di vita del cortiletto, l'ombra del mio corpo pesante e nudo che muove il suo passo coattivo da qui a lì e da lì a qui, come la fiera del circo stipata nel gabbione tra un numero e l'altro. Ti scrivo per dirti di questa città che attraverso cercando e scoprendo ma restando in bilico come non m'era mai capitato. Fuggo la disposizione nevrite al nulla che scambiano per il tutto lasciandomi stupito, che è la cifra del mio presente, quello con cui sono arrivato a misurarmi ora. Ma ne ho viste di cose io, mi ripeto mentre il sonno mi saluta e mi lascia nel letto a ascoltare nelle cuffie questo sassofono napoletano e amico che mi recupera al respiro. Ti scrivo da una stanza che mi hai prenotato da lontano, scegliendo a caso che quella è la regola dell'ennesimo gioco che ci siamo inventati e mi accorgo che se mangiare a un tavolo da solo la sera mi piace, non si può dire lo stesso per il letto. Non mi piace dormire solo in un letto. In spiaggia, nel bosco, in treno, su un lembo di prato a bordo strada, in macchina ho dormito milioni di volte e da solo ma nel letto mi manca quella sensazione di un corpo altro, di un respiro altro. Ti scrivo come a salutarti con la prudenza delle parole, come accostassi a un molo senza abitudine. Scrivo e conto i passi che mi dividono dal bar del mattino che deve bastare. A pranzo passeggio per strade sempre diverse, non lo crederesti ma il tempo del pranzo lo passo da solo a camminare e a fermarmi sui ponti per guardare quel garbuglio di storie che fa intuire la forza dell'acqua che trascina. La mia prodigiosa memoria a pranzo mi lascia al presente e basta. Ancora non lo crederesti.
Così passo davanti alla chiesa di Sant'Andrea Apostolo, che quel santo porta il nome di mio fratello e già per questo mi piace. Ogni giorno c'è questa coppia di barboni e lei è anziana e ha piedi gonfi e la faccia pure, segnata dall'abitudine al merdosissimo vino nei cartoni e con la pelle conciata dal caldo e dal freddo, dal freddo e dal caldo. Lui è più giovane, alto e vestito sempre con un tocco folle. Cuffie rosa e gialle di lana e un mantello scuro e scarpe fuori tempo e misura. Tengono mille masserizie ordinate in un cubo monolitico di coperte e stracci. Lui legge giornali, lei guarda la gente che sfila. Parlano fitto tra loro e si bastano. Ieri sono passato nel tardo pomeriggio e lei cingeva il ragazzo in un abbraccio che accoglieva un abbandono disperato e vinto. La marea mugghiante dei turisti passava diretta all'arte raccontata dalle guide e nessuno s'avvedeva di quella formidabile Pietà.
Ti scriverò ancora da questi letti dormiti a caso. Sembra un buon trucco per dar tregua al calore bianco di questo amare che mi brucia da una vita.


Ph. Giorgio Olmoti


venerdì 20 gennaio 2023

Mi sono creato da solo ma David Crosby ha delle responsabilità

 






Mi sono, nel bene e nel male, creato da solo. Ci ho messo qualcosa di più di sette giorni. Prima il respiro che non usciva, l'ho inventato a poche ore dalla nascita, che già mi davano per morto. Poi imparare a guardare e a parlare, subito pare e in una maniera che lasciava sgomenti. Parlavo e ero piccolissimo e argomentavo. L'agiografia famigliare dice che avevo sempre da ridire e avevo un parere mio su tutto prima di compiere un anno. Era la mia strategia difensiva credo. Che l'ho capito che toccava guardarsi le spalle da solo già da subito. Poi camminare, male, sempre incasinando un passo davanti all'altro. E correre e cadere e la bicicletta e parlare con tutti gli animali e provare a inseguirli e stare per ore a guardarli. Ho imparato a leggere con fatica e scrivevo malissimo e in giro in giro per il foglio. Forse avevo qualche disturbo dell'apprendimento ma allora si diceva solo che ero uno che non aveva voglia di fare un cazzo a scuola. Probabile. E intanto mi creavo da solo con quello che c'era. Come un piatto arrangiato con le cose che trovi nel frigo la sera tardi e sei stanco. E poi sono venuti i libri e i fumetti e i film guardati in bianco e nero con mio padre alla televisione. I boschi e l'acqua e cominciare a scoprire che ne valeva la pena. Guardare il mondo perdendosi nell'attenzione ai particolari, come in certe tavole complesse di Jacovitti che stai lì a scoprire per ore. Mi sentivo padrone del mio mondo. Ed è arrivata tutta insieme quella maledizione di una voglia che ti prendeva allo stomaco e ti ingombrava tutti i pensieri. Le femmine erano al centro di tutto ma tu non eri al centro di niente per loro. Una maledetta fatica. E allora i libri non bastavano più e avevi un carico di emozioni che non sapevi dove parcheggiare ed è cominciata quella cosa lì di ficcarti, saltandoci dentro a piedi uniti, nella musica. Altro che la memoria imbarazzante dello Zecchino d'oro e dei quarantaquattro gatti che cantavi gridando in auto fino a scoppiare. Per la gioia della famiglia che aveva preso a trattarti come si tratta un forsennato. Sono arrivate le canzoni e ho fatto come faccio sempre. Mi sono letto di tutto, ho ascoltato per ore la radio ogni giorno, mi guardavo in giro. Studiavo. Stavo zitto e cercavo di imparare. Il primo vinile è stato Bob Dylan. Avevo un disco ma non avevo un giradischi. Costruire da zero tutto il mio Empire of dirt, citando Cash che fa una cover meglio dell'originale. Il primo stereo era, giuro, un giradischi mono collegato con i fili volanti al bauletto di una vespa Px appeso al muro e su cui, come usava, erano montate delle casse. Come dici? Come facevo ad averci il bauletto di una Vespa? Non ricordo. In ogni caso è in prescrizione. E avevo un registratore a cassette con la radio che era un bel modo di allora per sentire la musica. Al punto che per anni ho avuto solo cassette e pochi dischi feticcio. Migliaia di C90 con due album registrati, uno per lato, e le copertine scritte a mano e disegnate da me medesimo.  E sono arrivati Crosby, Stills, Nash and Young. Credo che Deja vu sia il disco che ho ascoltato di più nella mia vita. E poi i dischi da solisti e la monumentale opera di Young e il sogno delle ore di registrazione con Hendrix che Stills conserva gelosamente e che non è stato pubblicato.  E poi Crosby, quella voce lì mi ha inchiodato le emozioni all'anima, come le tesi luterane al portone della chiesa. Mi ha cambiato la vita. Una parte irrinunciabile. Me lo sono portato dietro fino qui che mi sono creato tutto da solo e ora comincio a vedere le crepe in quell'argilla da poco. Crosby è parte preponderante della mia personalissima colonna sonora. E ora è morto. Abbiamo giocato ogni volta che lo sentivo a credere nell'immortalità e a ridere di quei complottisti che sostengono che anche uno come lui è destinato a morire. E oggi è morto. Un giorno Ste mi ha portato ad Aosta a vedere Crosby Stills e Nash e erano già vecchi e viaggiavano ognuno su un autobus nero enorme suo. Senza guardarsi in faccia. Ma sotto quel palco, c'ero andato sospettando la delusione, Crosby si è proposto al pubblico come se il tempo non fosse mai esistito. Una voce miracolosa. E io ero arrivato lì con la paura di fare i conti con il reale. Sembravo quel suo personaggio che guarda nello specchietto e vede l'auto di madama e si fa stringere al collo dalla mano della paranoia. Crosby è morto e io mi sono creato da solo usando anche quelle sue canzoni. E grazie a lui ricordo ancora il mio nome. Quasi sempre. Ma avrei voluto chiamarmi Crosby e forse per questo il mio cane si chiama Nash.

Ciao Croz

lunedì 9 gennaio 2023

primo movimento

 


Primo movimento


Il campetto giù allo scalo è invaso dal primo sole veramente estivo. I ragazzini corrono dietro al pallone gridando. Al Guasto, per arrivare lì, gli è toccato passare davanti al bar della stazione. C’era da giurarci che suo nonno se ne restava lì al tavolino a sentirsi passare gli anni addosso, bevendo quel vino avvelenato e berciando con quegli altri rancidi a chi era nel giusto e chi nello sbagliato. Qualsiasi fosse l'argomento. Non gli piaceva punto passare da quella parte, sentendosi addosso gli occhi di quello schifo d'uomo con le unghie sepolte come fossili sotto ere geologiche di sporcizia e l'alito da trogolo e quel puzzo di piscio e nafta che si portava nei panni frusti. L'aveva sempre odiato quel vecchio e la cosa doveva essere reciproca. A memoria sua, la carogna, il padre di sua madre, non gli aveva mai rivolto un accenno di grazia, un sorriso, un’attenzione. Si limitava a guardarlo come fosse un cane nato con tre zampe. E anche mentre passava con i pantaloni di tre taglie più grandi che gli dondolavano sui passi come la gonna di una ballerina spagnola della televisione, giuraci che era lì a guardarlo con disgusto e la testa piegata di lato. Magari qualcuno dei suoi gli avrà anche domandato “ma non è il figliolo della Cate quello lì?”, chiedendoglielo più per dispetto che per informazione. Lui non avrà risposto, continuando a fissare quel mucchio d'ossa e pelle troppo pallida. 


Abitavano vicini il Guasto e suo nonno. Proprio la stessa casa ma con due porte diverse per entrarci. Il padre era sparito in Belgio e dopo le prime lettere e qualche spicciolo non ne avevano più avuto notizia. La Cate andava a servizio dalla moglie di quello del Consorzio e dice che si consolava con diversi maschi della zona. Era una cosa che si sapeva e a scuola ogni tanto qualcuno gli soffiava come un serpe “Guasto, tua madre è una troia”. Anche al nonno erano arrivate le voci e la sera in casa si sentiva gridare a volte. Dopo una cena ringhiata il vecchio merdaiolo era andato vicino a farla secca con un bottiglione del vino vuoto. Glielo aveva tirato dietro mentre lei si alzava dalla tavola dove dividevano quello che c'era. Di suo, il Guasto s'era convinto che la rabbia del nonno dipendesse da quella maledizione di dover contribuire a sfamare la figlia e il nipote. E poi c'è quella storia del nome, che lui mica se lo ricorda quando hanno cominciato a chiamalo “Guasto” ma quando gli viene quella rabbia lì, che la conosce solo lui e che gli sale dalla pancia alla gola con il sapore amaro di fiele, gli monta il sospetto che quella maledizione d'essere chiamato da tutti così deve essere un regalo, l'unico, del vecchio. Giuraci che è stato lui a cominciare a chiamarlo così con gli amici del bar allo scalo. Dove sta anche adesso e lo guarda e fa la faccia dello schifo. Remo, che così si chiama il Guasto all’anagrafe, va avanti e non si gira, fissando piuttosto l'attenzione sulle lucertole che fuggono al suo passaggio. Lui lo sa bene che se ti muovi piano, pianissimo, quelle bestie lì le freghi e le puoi prendere con il cappio fatto con l’erba lunga e tirarle su allo strangolo e guardare che spasimano di riuscire a infilarsi nei loro buchi. Le tieni sollevate e ti godi quella frenesia disperata come fossi dio che manda le piaghe sulla sua gente.


Il campetto sta lì, riempito dalle urla e dai colpi secchi sul pallone di cuoio consumato. Rubato alla palestra della scuola media di Sapriano, il paese vicino. Perché il cane non piscia mai dove mangia dice il vecchio Morchia che ha fatto il ladro tutta la vita. Le scarpe di tutti non sono buone per quell'agone sportivo e giuraci che a casa qualcuno stasera si prenderà le sberle. Non è certo un problema del Guasto. Lui non gioca. Sta a guardare di là dalla rete e resta seduto sulle seggiolette di plastica ingiallita messe da un improbabile pubblico improvvisato. Nell'erba sporca ci sono due ragazzetti che non sono in età per stare lì in mezzo a giocare ma restano nei paraggi perché può sempre succedere che vengano chiamati dentro a rimpiazzare qualcuno. Stanno lì come i cani sotto il tavolo, che s'approfittano dei pezzi di pane che cadono in terra. E intanto guardano quegli altri che corrono e rotolano nell’erba zellosa e si gridano i morti e i parenti. Ogni tanto arriva anche Simone che ha la stessa età del Guasto e andavano all’asilo insieme ma non si sono mai dati troppa confidenza. Non gioca a pallone, sembra lui il pallone, è grasso e ha gli occhiali con la montatura verde smeraldo e le lenti tondissime a enfatizzare la grossa testa e gli occhi sbarrati. Va in giro con un cagnetto secco e basso, nero focato. Simone lo chiamano con un elenco di trovate spiritose che hanno a che fare con il peso in eccesso e gli occhiali e la puzza dei piedi. Inventano i nomi le rare volte che lo chiamano ma non è mai per cercarlo davvero, piuttosto per ridere a bocche spalancate, di quello sguaiarsi di rabbia e acido dello stomaco alla bocca, che non ha nulla da spartire con il divertirsi. Però lui ha il cane che gli gira attorno allegro, pensa il Guasto. Poi vede un’altra lucertola sul muretto. Immobile al sole. Il rettile muraiolo aspetta una mosca o un altro insetto da acchiappare al volo. Cerca il bastone il Guasto, quel legno nodoso che si porta sempre dietro. Con l’aria di essere un pastore del presepe, che la consistenza del suo pelle e ossa è come la cartapesta e la somiglianza con i pupazielli che il prete mette nello scenario della natività a fine anno è sputata. Solleva lentissimo quell’arma primitiva il Guasto, scortecciata con il coltellino che gli ha regalato la madre dicendo di non perderlo che era svizzero. Lui la Svizzera non ha idea di dove sia, ma quei coltellini devono essere una cosa rarissima. Lui lo sa che la madre il suo l’ha preso dalla scatola dell’armadio. Ci tiene quelle cose segrete che sono i ricordi e le fotografie dell’uomo che doveva essere suo padre ma è stato inghiottito dal Belgio, che sarà vicino alla Svizzera. 

Come una katana dei film di botte cinesi, nel controluce del sole  il bastone resta sospeso in aria, poi cala in picchiata. Sulla lucertola. La muraiola. La schianta, la spezza, la spappola. Muore. Contorcendosi muore.











sabato 5 febbraio 2022

Il cane d'Africa

 



E io che racconto per mestiere e per attitudine stavolta non so da dove cominciare. Sul serio. Con Elisabetta Bosio e Cosimo De Nola registriamo i podcast di "Storie di cani", che sono l'estensione sonora del libro "Che razza di cane" e ci divertiamo molto e pare che si diverta la gente ad ascoltarci. Le musiche sono originali e suonate tutte dalla portentosa Elisabetta, le parole sono le mie, sempre lì lì per inciampare inseguendo e superando altre parole. Poi capita che in quella bolla che annulla lo spazio e il tempo che è lo studio di registrazione,, davanti al microfono e senza averla preparata prima, decido di raccontare una storia, questa storia che esce oggi nel podcast e che si intitola "Il cane d'Africa". Inizio quasi prendendola larga e poi a un certo punto comincio a visualizzare le scene e a riportarle come se l'avessi vissuta io. E invece è una storia della memoria familiare, che mi è stata raccontata insieme a mille altre la sera, dopo cena, con mio padre che è stato il più grande narratore di storie sue e di libri d'altri che io abbia mai incontrato e possiamo dunque ben dire di padre in figlio. E insomma mio padre è il protagonista di questa storia e stavolta non si ride per nulla ma si spiegano le radici profonde del mio legame con i cani. E io me lo sono sempre immaginato mio padre a sette anni a Anzio, mentre gli alleati sbarcano e mio nonno ha affondato il dragamine al largo di Trieste per non consegnarlo ai tedeschi, mio nonno che s'era già fatto la Prima guerra mondiale e gli anni negli Stati Uniti e era potentemente antifascista. Me li sono immaginati sempre senza poterli vedere se non nell'indizio genetico che mi porto addosso come se lo porta mio figlio. E insomma registro la storia e a due giorni dalla pubblicazione mi arriva di notte un messaggio da mio fratello Andrea, un altro pezzo importantissimo della mia memoria domestica. Perchè nei giorni dello sbarco ad Anzio tutta la popolazione era stata caricata sulle navi e sfollata in Calabria e in Sicilia. La famiglia di mio padre era stata mandata a Bova Marina. E nel racconto a più voci di quei giorni si diceva che a mio padre e alle sorelle gli avessero fatto un film gli americani sulla nave. Dice che mio padre aveva un passamontagna rosso di lana e sudava e quando l'aereo tedesco li ha mitragliati tutti credevano l'avessero colpito e invece era solo il berretto che stingeva. Insomma mio padre ha passato la vita a cercarsi nei documentari e chiedeva a me che di mestiere frugo negli archivi di trovare quelle immagini sulla nave. Nel 2016 mio padre è andato avanti e non le ha mai riviste quelle immagini, abbiamo anche dubitato fossero mai state girate. Però ci aveva raccontato la sua vita passo passo, dandogli una notazione salgariana che ce la rendeva imperdibile. E l'altra notte mio fratello l'ha trovato. Ho lo spezzone del video e mi sono fatto i fermo immagine perchè ho subito attivato la mia macchina tecnica di mestiere. E lo guardo mio padre e ci sono le sorelle e alle spalle anche mio nonno. Hanno perso tutto. Non sanno dove li stanno portando. E di colpo ho capito che la faccia di mio padre era quella del bambino che racconto in questa puntata del podcast. Era successo tutto pochi giorni prima. Io quasi non riesco più a guardarla quella faccia. Ma ho capito un sacco di cose di me e di tutta la mia vita. Mi dessero solo il tempo di una spaghettata di notte con lui e mio fratello per rivederci quelle immagini insieme. Però abbiamo chiuso il cerchio. Grazie soprattutto a mio fratello Andrea, grazie a tutti e scusate l'impaccio.

Buon ascolto.

Ah già, stavolta Elisabetta ha suonato da strapparmi l'anima



https://open.spotify.com/episode/1AroHE6GvnLXGNw1nEYjPx?fbclid=IwAR0eyx0oZKxxTbkGddG3U2VGWXWPw7ZOhGfWwXsSVLooEoFCXMcXzoOmdpQ














giovedì 21 ottobre 2021

CANZONE PER L'AUTUNNO

 



Con il tuo schierarti deciso e la certezza della storia che non hai studiato mai. Con i tuoi gerarchi che ora, sui social, puoi fare eroi senza quella vergogna che era un sospetto quando stavi da solo nella tua stanzetta e già pensavi che dove c'era la morte di milioni c'era ordine e quindi era buono. Con la tua stanzetta da riordinare e tua mamma a darti del briccone e a farlo per te. Con il tuo lavoro sicuro e le strade che son sempre meno sicure e la sicura della Beretta da accarezzare. Con i tuoi colpi partiti accidentalmente e un figlio di sei anni morto nel tinello con un buco in fronte. Con la tua palestra per essere forte e non riuscire nemmeno a sollevare la pagina di un libro. Con i tuoi stupri cattivi e stupri buoni. Con il tuo credere che si stava meglio quando tu non c'eri ma ti pare di saperlo pari pari perché quell'ordine di prima ti fa una gola pazzesca e ti regala un brivido che è già sesso. Con quell'impaccio di non riuscire a far l'amore e a spingere e a guizzare e a mordere e a sorridere e a perderti nella carne e la carne, e dici che è colpa di questo tempo avvelenato. Con la paura della morte che ti fa tenere d'occhio i passi sulla app e le calorie e elimino questo e eliminare è buono. Con la paura dei negri. con la paura degli zingari.con la deferenza con cui saluti quello della banca. Con tuo padre meridionale, che vi sentite ogni tanto ma loro son venuti per una vita nuova. Con la tua bella militanza di sinistra oggi, quella roba lì di essere democristiani ma vestiti casual. Con la tua bella forza ideologica che spendi sul social e poi basta, che quando mi hanno licenziato stavano tutti zitti. Con i poveri, i ricchi e quegli altri. Con le vacanze che finiscono e vivere undici mesi sentendoti quella roba lì che sei solo per tre settimane se togli natale e pasqua. Con la tua maglietta dell'Italia agli italiani e le tare che ti porti addosso, che te lo immagini da solo che ci fosse davvero la selezione della razza tu saresti già nell'umido. Con la fede e la preghiera e appena uscito dalla messa odiare e odiare e sospettare e accogliere un cazzo. Con la macchina dei tuoi sogni. con la casa dei tuoi sogni. con questa maledizione che la mattina ti svegli e non ti ricordi mai cosa hai sognato.
Com'è che non riesci più a volare?




venerdì 1 ottobre 2021

Lui camminava ed io correvo

 


Lui camminava ed io correvo. 

Era tutto il giorno che giravamo con mio padre i boschi alla ricerca di funghi. Il bottino era davvero magro e io avevo riempito lo zaino di tela di mele di qualche albero abbandonato al suo destino da decenni e che ancora si ostinava a buttar fuori certi frutti butterati. Ma per me era comunque una soddisfazione e mia madre di sicuro il giorno dopo avrebbe fatto una torta recuperando al palato quei frutti vaiolosi. 

Scendiamo in una valle verso un gruppo di betulle, lo stesso posto dove anni dopo, durante una scossa fortissima di terremoto, vedemmo i cinghiali correre impazziti gridando. E non potevamo credere ai nostri occhi. Solo se vai a funghi puoi capire il senso di vertigine che può prenderti quando all'improvviso ti imbatti in un campo riempito di mazze di tamburo o in una zona dove trovi porcini sparsi dovunque provi a guardare. 

Porcini e ancora porcini. Grossi, vellutati. Sembravano finti. Li raccogliamo e riempiamo tutto quello che abbiamo con noi e che può contenerli. Siamo felicissimi. Arriviamo alla macchina e mio padre dice "Però mi è venuta fame, facciamoci due porcini alla brace". Mia madre obietta che non abbiamo niente per cucinarli e se lo dice lei che riusciva a fare il sartù sul fornello della roulotte quando eravamo assediati dal sisma. Ma mio padre m'ha insegnato a improvvisare, a inventare, a viaggiare, a scoprire, a cercare nei libri e negli occhi delle persone e nella terra e nell'aria e nell'acqua. Apre il cofano della Fiat 124. Tira fuori le catene da neve, che all'epoca erano catenazze degne di una nave negriera. Accende un fuoco, che in macchina sua e anche nella mia non manca mai qualcosa per accendere un fuoco e un sacchetto di sale. La fiamma si alza tra i rami secchi e sta diventando buio. Tutta la famiglia attorno a quel fuoco bordato di pietre. Ridiamo. Poi mio padre butta le catene dell'auto sulla brace viva e le fa arroventare. Ci appoggia le più succulente tra le cappelle dei porcini e ci mette un pizzico di sale. Usiamo dei bastoncini a cui abbiamo fatto la punta come posate. Io funghi buoni così non ne ho più mangiati in vita mia.

Mio padre sapeva il nome di tutte le piante e sapeva seguire le tracce degli animali e sapeva prendere le trote con le mani e ora un po' queste cose le so fare anche io e un po' anche mio figlio. Mio padre è morto esattamente cinque anni fa. Mentre moriva io ero lì e lui mi diceva che quelli della casa editrice erano stati gentili a darmi tre mesi di ferie per stare con lui. Gli ho mentito mentre moriva e non gli ho detto che quelli della casa editrice se n'erano fottuti di lui, della sua morte imminente e anche di me che in quel momento non avevo nessuna difesa. E ero lì con lui mentre moriva e e lui m'ha consigliato di leggere "Viaggio al termine della notte". Io l'avevo già letto ma ho capito cosa mi voleva dire. Ciao, forse ci si rivedrà dall'altra parte e se non c'è nulla non importa. Il sapore di quei funghi è valso tutto.