Io me lo ricordo di quando sono andato al cine che c’era “balla
coi lupi”. Avevo addosso una bella porzione di giovinezza, che son passati a
spanna più di venti anni e era in un cinema di Perugia che forse ora non è più
un cinema ma anche Perugia ora non è più Perugia e quindi i conti tornano. Mi
ricordo anche che il film durava come un film e mezzo e quindi toccava
appoggiare un supplemento in biglietteria e mi portavo dietro la ragazza e
pagavo io pure se ero uno abbastanza fuori da queste smancerie ma a farmi
pagare il cinema mi sentivo una tragica citazione gucciniana e quindi ci tenevo
a fare la parte mia. E mi ricordo che quel film non mi era piaciuto, m’era
sembrato una gondola in miniatura colle lucine da comprare a Venezia sulle
bancarella che confrontato alle storie di laguna vere fa la sua misera figura.
Però lo so che le gondole luminose hanno più mercato delle storie che piacciono
a me. Lo so da sempre. Da quando mi hanno regalato una gondoletta luminosa
almeno. Da quando studiavo lo sciamare degli scarafaggi dai tombini prima
dell’acqua alta. Ma questa è un’altra storia. L’indiano di quel film si
chiamava “vento nei capelli” o giù di lì, che dev’essere stato per via che
quello che gli cavalcava davanti sofriva di aerofagia ma per quanto cercassi di
destrutturare un’impalcatura narrativa fatta di stereotipi da spot
pubblicitario tutti attorno a me si commuovevano. Quando ammazzavano il lupo
“due calzini” la gente piangeva. Ora io volevo dirglielo “fratelli, il lupo non
c’è più a giro perché li abbiamo ammazzati tutti, amici il lupo è quella roba
lì che proiettate nell’immaginario dei vostri figlioletti per dare carne alla
paura, sodali il lupo se ve lo trovate davanti non vi commuove di certo ma non
ve lo trovate davanti perché un lupo me l’ha detto che ai cuccioli per fargli
paura gli dicono “ti prende l’uomo cattivo” e loro hanno più ragione di noi a
sostenere questa tesi, numeri alla mano”. Invece non ho detto nulla. Il film
continuava raccontando come vivono i pellerossa e come è affascinante il loro
legame armonico con la natura. Poi arrivano i bianchi e sterminano tutti. E giù
di nuovo a piangere. Si accendevano le luci e tutti cogli occhi gonfi gonfi.
Un giorno invito Gianni Berengo Gardin a parlare a un
nutrito gruppo di docenti delle superiori. Si parla di memoria e narrazione
fotografica. Sempre ‘sta dannata narrazione direte voi. Io batto il ferro
perché quello è il mestiere mio assegnato. Gianni è uno dei fotografi italiani
più importanti di sempre, sicuramente il più testimoniato a livello editoriale.
Gianni è uno che usa la macchina fotografica per raccontare ma con la
consapevolezza che i suoi scatti non sono contorno alla storia ma sono
piuttosto agenti di storia. Gianni entrava con Basaglia nei manicomi e ci
raccontava l’orrore di quelle stanze intonacate a merda, sputi, sangue e
disperazione. Gianni invece del filtro davanti alla lente sembrava avesse
montato delle sbarre di ferro, tante sono le foto che raccontano il mondo oltre
le grate.
Tutti guardavano
compiaciuti gli scatti. Gianni faceva vedere le foto di Venezia, col bacio
sotto i portici, e quell’altra della coppia a bordo oceano dentro la macchina,
un’icona senza tempo. Tutti guardavano compiaciuti gli scatti. Gianni alla fine
della meraviglia mostrava i campi degli zingari e gli interni delle roulotte e
i topi e i bambini. La gente lasciava da parte la meraviglia e cominciava a
mormorare “a me m’hanno rubato la radio in macchina” “a mia cugina gli sono
entrati in casa”. Uguali agli indiani della pellicola ma questi erano sotto
casa non come i lupi e i pellerossa relegati in parchoi e riserve e quindi da
piangere non c’era un cazzo di niente. A me non mi salta in mente di fare le
tirate sul fatto che gli zingari son buoni e bravi che li conosco e bene e son
dei discreti figli di puttana ma guardo tutti questi indignai e immagino non
nutrano lo stesso risentimento per l’uomo in giacca e cravatta della banca
anche se la porzione di furto consumata da quello lì va oltre tutte le
autoradio possibili. Senza un briciolo di fottuta retorica ma piuttosto per
completezza dell’informazione.
E allora mi son ricordato un altro film. Parla di due
motociclisti come son motociclista io e tanti altri, e forse se lo sono è per
aver consumato anche io la mia fetta consistente di suggestione filmica. ‘Sti
due motociclisti non hanno una dimora fissa, guarda tu come fossero zingari. Se
ne vanno in giro e vivono violando la legge, guarda un po’ tu, come capita agli
zingari. ?Sti due motociclisti incontrano a un certo punto un altro sbiellato e
son lì a raccontarsi che la gente, quel mucchiame lì indistinto di idea negata
che definiamo per fiacchezza dell’informazione “la gente”, passa il tempo a
parlarti dell’individuo ma quando se lo trovano davanti l’individuo poi si
cagano addosso. E infatti la gente lo ammazza a bastonate quello sbiellato lì e
poi si lavora anche gli altri due la bella gente lasciandoli morti sull’asfalto
a farsi portare dalle note di Roger mc Guinn che è compartecipe dell’original
soundtrack. Insomma io ho visto ‘sto film e l’ho capita la storia che devi
averci ben presente l’idea di libertà, che l’idea che la ragione è della
maggioranza non funziona, che la massa mugghiante non ha cervello ma monta come
il fiume di piena sull’argine debole e porta come il fiume carichi di merda e carogne.
‘Sto film mi ha spiegato che ad averci le idee preconfezionate, già saltate
nella padella, non c’è guadagno. Con buona pace di quelli che al cinema i film
gli hanno insegnato a piangere fino allo scorrere dell’ultimo titolo di coda.
Ora, mentre scrivo, nell’aria torinese stagna ancora la
puzza di bruciato. Una ragazza dopo aver scopato col suo uomo per paura della
famiglia dice che l’hanno violentata gli zingari. Dalle Vallette, che non è
proprio una zona d’agio, partono un mucchio di persone che dice che sono ultras
della juve e pensa tu il cortocircuito delle appartenenze e delle
territorialità che alle Vallette c’è pure il carcere torinese e le Vallette
sono uno dei contenitori urbani riempito negli anni Sessanta o giù di lì di
tutti i meridioni possibili. Bruciano un campo nomadi, che non mi sono
simpatici a prescindere, perché io al cinema piango solo per Dumbo, ma che non
posso odiare per abitudine. Non odio niente per abitudine, tranne i luoghi
comuni e l’isteria collettiva. Ma evidentemente questi il film dei due
motociclisti non l’hanno visto o non ci hanno capito un cazzo. Questi
preferiscono averci un’idea collettiva, anabolizzata di leggende metropolitane
e distorsioni del reale, questi si riconoscono sotto un segno d’apparttenenza,
un grugnito, una svastica, un qualcosa. Preferiscono fare così che averci delle
idee tutte loro, costruite a martellate su quello che la vita gli fa passare
davanti. Sarà così. Come diceva Danilo Dolci “non sentite l’odore del fumo”.
No, mi ripeto, questi il film dei due motociclisti non l’hanno mica visto mi
ripeto. O non ci hanno capito un cazzo. Può essere.