"e io piangerò e saranno lacrime di silicone, perchè il futuro tutti ci svelerà per quegli androidi di prima generazione che siamo, difettosi nel chip dell'emozione." blughost
E la storia che ti porterai addosso te la scopri sulla pelle
e nessuno t’ha dato il tempo di prendere due misure, di metterti davanti a uno specchio
per tentare un paio di mosse d’eleganza. La storia quando t’accorgi d’averla addosso
è tutto quello che puoi portare,
che sai portare. Malgrado tutto. E i difetti e i rammendi sono indizi di una
memoria che cade come i bottoni che non saprai mai fermare.
Avrò avuto dieci anni, fai anche undici e era il giorno del
turno mio col terremoto, roba che in questi giorni mi fa stare coi gomiti piantati
nel tavolo per percepire ogni minimo indizio del rutto maledetto della terra. In
una casa vicina alla mia vivevano quattro fratelli e soprattutto il più grande era
l’uomo che avrei voluto essere, uno che non lo inchiodavi mai di schiena a terra,
uno che sapeva essere svelto parecchio e aveva una specie di moto autocostruita.
Il terzo fratello, erano stati fatti serrati uno dietro l’altro, era della mia età
e me la intendevo con lui ma quella frequentazione mi dava il privilegio di poter
stare in strada con tutti loro. Avevano i coltelli in tasca. Avevano un padre che
era andato a lavorare in Canada e non se n’era saputo più nulla. Avevano una
casa che stava in piedi con lo sputo e una madre da guerra al demonio. Lo sapevo
bene che tutto quello che indossavano, compresi gli invidiatissimi jeans Wrangler,
se lo procuravano con certi giri loro e certe sere d’estate, che l’estate puoi
stare fuori dopo cena, Mumu, quello più grande, tornava e li chiamava a raccolta
e se ne andavano a casa con certe scatole e certe borse. Poi c’era quella storia
dei coltelli che ogni tanto davano di lampo per questo o quel motivo e c’era da
fare il giro largo. A una certa ora io e molti altri dovevamo tornare a casa e
loro continuavano a girarsela fino a notte fonda. I palazzi erano tutti uguali
e la loro casa scassa era al bordo delle palazzine. Un giorno una che abitava
alla seconda palazzina e che faceva la poliziotta, così dicevano le altri madri
anche se io non l’ho mai vista in divisa, si fa il giro degli appartamenti e avverte
le madri che quei quattro si vendevano in una via della città dove c’era quel
mercato lì della carne dei maschi giovani. Questa qui che era poliziotta aveva
un figlio che stava sempre chiuso in casa, non scendeva mai a giocare. Era più
piccolo e lo ricordo appena, sempre tutto ordinatino e col capello con la riga.
L’effetto dell’infamata fu devastante. Madri e nonne scesero in strada e gridarono
ai quattro di stare lontani. A dire il vero la mia di madre non fece nulla di
tutto questo ma piuttosto mi raccontò come stavano le cose. Per darmi la possibilità
di regolarmi. La notizia mi spaventò abbastanza. Tornai in strada e provai a
leggere nei gesti dei fratelli qualche indizio e invece c’era solo quella
maledetta cosa che mentre erano lì a giocare a pallone arrivava una madre
urlava e loro fuggivano. Ogni tanto ci chiedevano perché ce l’avevano con loro e
noi, che pure sapevamo, negavamo sempre. Non avevamo quelle parole lì.
La mia vita s’è portata addosso da sempre la maledizione del
trasloco imminente. Me ne andai da quella casa e li rividi di striscio qualche volta
ma giusto per far finta di non vederci alla cassa del supermercato. Poi un giorno,
vivevo a Battipaglia all’epoca e quei posti erano a un universo e mezzo di distanza,
mi raccontano che un ragazzo, uno che era amico del fratello di Corrado, che è
il mio amico di sempre e che avevo incontrato a casa loro qualche volta era stato
ammazzato con un numero tremendo di coltellate. Erano stati in due e l’avevano
ammazzato perché era negro. Uno dei due era il figlio di quella che faceva la
poliziotta coi capelli sempre ordinati e il vestito a modo. E mi son tornati alla mente gli strilli delle madri che cacciavano quei poveracci marchiati d'infamia. E mi son tornate in mente le facce loro mentre scappavano e la rabbia loro. Mi son ricordato troppo forse.
Siamo cresciuti davvero come le castagne matte, con un senso di inutilità dei nostri giorni che non ci dava modo di sentire quanto maledettamente fossimo attraversati dalla storia perchè ho buona ragione di credere che la storia non esiste. le storie piuttosto, chi le ammazza quelle. Sono le storie che ti fanno sentire bandito senza tempo.
I palazzi dove stavamo noi erano gli ultimi della città, poi
c’erano i campi, ma mica una cosa bucolica e rasserenante. Erba sfilacciata e
malata che cresceva scansando i copertoni usati fino alla tela e i preservativi
abbandonati la notte nelle stradine sghembe e sotto il gelso del Milanino.
Saccocci di gomma trasparente senza fiato, col loro carico di vita negata che
per noi che stavamo lì a guardarla la maledetta vita nostra, quel lattice
sverso in terra era già una rassicurazione. Una delle poche. La marca che
andava di più era Hatù, che con il modello Settebello agiva tra noi in regime
di monopolio. C’era uno che girava con un vecchio 124 sport e aveva tutte le
confezioni usatedei goldoni di
quel modello lì impilate nell’asta del cambio. Per vantarsi o per monito. Vai a
capire. Sta di fatto che nessuno comprava i preservativi in farmacia ma è certo
che tutti li compravano e li tenevano in tasca, un po’ perché non puoi mai
sapere come svolta la giornata ma più realisticamente perché se ce li hanno
tutti e tu non ce li hai è un lampo che sei fuori dai giochi e salta il posto
tuo sui gradini del portone la sera, coi motorini razza Ciao schierati a faro
spianato a guardia, che il mondo non ce l’ha mai raccontata a convincerci. Però
in farmacia non ci si andava a comprare i goldoni e non c’era nemmeno il
distributore automatico come adesso e allora si adava da uno che ogni tanto lo
vedo ancora in giro e mi verrebbe voglia di chiederglielo adesso, a palle
ferme, da dove cazzo nasceva quel giro lì. Arrivavamo in tre o quattro, con gli
spiccioli ciancicati nelle tasche dei jeans strettissimi, coi pedali del
motorino razza Ciao smontati, che noi si partiva sempre in corsa saltando in
sella, e si faceva la nostra spesa. In casa il tizio in oggetto aveva degli scatoloni
di Settebello e si contrattava e s’usciva colla preda nostra in tasca, sempre
nei jeans strettissimi. Dicevano che questo qui aveva un gancio con le
fabbriche e si faceva dare quelli difettati e quindi non stavi mai tanto
tranquillo, al punto che quando è stata la volta mia, la prima volta mia e pure
la prima volta di quell’altra che a dispetto dell’impaccio iniziale siamo
rimasti amici fino a oggi, me ne son messi due e a dirla tutta se qualcuno mi
chiede com’è stato non ne ho una percezione precisa che mi son presentato
all’appuntamento con la vita gommato come un trattore e la sensibilità era
decisamente attenuata.
La mia educazione sentimentale è partita proprio da quelle
zolle stitiche dietro casa che erano per molti una risorsa alimentare da non sottovalutare
in quei tempi di magra. La benzina e la fettina di carne, più qualche
confortino composto da dolci e budini improbabili, li recuperavamo come tutte
le altre famiglie in Jugoslavia, affrontando lunghe code alla frontiera nei
fine settimana. Poi ognuno s’arrangiava come poteva e c’erano gli orti abusivi
ma non avevano gran successo che appena i cavoli erano pronti era un attimo e
te li ranzavano in una notte propizia. La maggior parte s’adattava a recuperare
i frutti stenti di quella terra un tempo a vocazione agricola e ora strozzata
da fabbriche scasse, altro che miracolo del nord est, e capannoni e roba
buttata in giro alla come viene. Alberi di susine inselvatichite, qualche mela
butterata e oblunga che era presagio di una Seveso prossimo ventura e il
radicchietto nei campi e lo sclopit e la cicoria. Mio padre si dedicava ai
funghi e agli asparagi selvatici e se siamo vivi è perché nessuno mi toglie
dalla testa che abbiamo sviluppato delle difese che ci rendono immortali a
forza di mangiare quella roba lì che capitava in casa in cartocci e cestini
degni di Marcovaldo. A fare gli asparagi dalla parte del Cormor, ovvero già
pesantemente fuori zona per me e il mio motorino razza Ciao, che all’epoca
c’erano confini su cui non valeva la pena scherzare, mio padre ci andava con
mio fratello piccolo e tornavano con certi mazzetti di fili d’erba e qualcosa
che poi mia madre trasformava in spiritosissime frittate. Fossi stato Socrate,
dopo quella cura lì, la cicuta non mi ammazzava di certo.
Un giorno mio padre e mio fratello tornano e mi raccontano
che lì, al Cormor, in una sorta di capannuccia nascosta nella vegetazione hanno
trovato una cassa con dentro centinaia di riviste pornografiche. Non sono
rimasti lì a guardare che mio fratello era ancora troppo piccolo ma riportavano
la notizia del reperimento come se si trattasse di una necropoli etrusca. Vado
al policlinico, che noi non avevamo il telefono in casa, e dal bar di quella
struttura sanitaria telefono al mio amico di sempre Corrado. Gli racconto del
reperimento del tesoro editoriale e decidiamo di impossessarcene per rivendere
le riviste al dettaglio. Magari un paio ce le saremmo pure tenute ma il
pensiero nostro gettava radici forti nella capacità imprenditoriale del
benedetto nord est. Corrado non aveva il motorino per cui spettava a me andare
in quel maledetto posto e caricarmi il bottino. Recupero delle corde e parto in
una mattina d’estate. Le indicazioni di mio padre e mio fratello erano precise.
Mi ficco nel folto della vegetazione e scopro la cassa. Ci saranno dentro
duecento pezzi di pregio da Caballero a Le Ore Mese. Una formidabile
emerototeca. Faccio una fatica maledetta a fissare la cassa al Ciao e mentre
son lì che dal sentiero riguadagno l’asfalto sento delle grida dietro di me. Mi
giro di sguincio e vedo un abominio d’uomo, una roba geneticamente
impressionante avvolta in una maglia a righe colorate che enfatizza il ventre
gonfio e il collo taurino, che mi insegue gridando. Il proprietario delle
riviste, il fine bibliofilo. Vai Ciao vai. Ringrazio le ore spese a chiedere a
quel motorino tutta la velocità possibile modificando il modificabile.
Raggiungo la strada con quello che ansima alle spalle e con la discesa che
aiuta prendo la mia bella velocità e la mia distanza di sicurezza. Quello dopo
mi avrebbe pure ammazzato. Prima non ci voglio pensare. Sta di fatto che con la
paura che si mangia i miei quindici anni corro come un matto e attraverso tutta
la città, che Corrado abita agli antipodi di casa mia. Arrivo nel cortile col
cuore che batte a mille e m’attacco al citofono. Lui scende e solo allora
m’accorgo che ho distribuito immagini d’amore per tutta la città e la cassa che
s’è spalancata nella fuga è vuota per metà. Me lo immagino il tragitto mio
segnato da un porco Pollicino e disseminato di tutte le posizioni possibili, da
tutti gli ardimenti carnali concepibili e anche da qualcuno che non avresti mai
sospettato. Prendiamo la parte rimasta e la portiamo nella cantina di Corrado.
Restiamo un paio d’ore, con buona professionalità, a constatare la qualità
della merce nostra prima di immetterla sul mercato. Appena riaprono le scuole
contiamo di smerciare tutto. Lasciamo le pagine di piacere lì e ci accordiamo
su un paio di linee strategiche di mercato.Qualche giorno dopo la mamma di Corrado va in cantina, trova
il tesoro nostro e butta tutto via. Ce ne torniamo leggeri leggeri dal campetto
di basket un pomeriggio e i suoi insulti dal balcone ci inseguono lungo la
roggia.
Lì è morta la mia aspirazione d’essere giornalista.
A Venezia faceva freddo e non
c’è meraviglia, che da quel mese lì abbiamo da aspettarci giusto gelo frequente
e rare preghiere. Di speciale quel gennaio aveva che era la porta dell’ultima
stanza. Ancora pochi passi lungo i corridoi di questa casa al civico Novecento
e poi via. Trasloco. Altro millennio, altra strada, altre facce e tempo per
riadeguarsi e sperare. E mai a sfiorarmi il dubbio che i pochi sguardi concessi
a noi, reduci d’un secolo che non è di moda e d’orgoglio portarsi addosso, in
quest’era nuova, con la cilindrata portata a Duemila per darti accelerazione da
strappare il cuore, li avremmo fatti senza certe parole scritte taglienti e
offerte a voce calda. In quell’undici gennaio Fabrizio De Andrè è morto.
L’avevo saputo già dal mattino. Rientrato coi cani da un lungo giro in riva al
Torre, allora vivevo nella campagna friulana, tentavo di dare un senso a fogli
e appunti e files che sarebbero diventati oggetti di discussione nel mio
pomeriggio veneziano e la notizia s’è piantata come un cuneo nei miei affanni
domestici. La radio, con un imbarazzo che mai avevo saputo scoprirle in anni di
convivenza, me l’ha confidato d’un soffio. Morto. Sono rimasto lì, col gesto
fermato a mezzo. Ho chiesto posto ai cani sul divano e ho lasciato che le mie
dita goffe finissero dove in qualche modo cominciava una chitarra. Cullandomi
su un arpeggio suo, un paio di accordi facili e fragili. Da amico. E s’è fatta
l’ora di partire e ho raccolto le mie cose e ho lasciato che la moto mi
portasse fino al treno.
La stazione di Venezia Santa Lucia se ne rimane proprio
sul bordo del canale e, appena fuori, sai da subito che sei in quella città lì
e in nessun’altra. La meraviglia, a distanza di anni, mi si rinnova tutte le
volte. Quel giorno non ricordo nemmeno d’esserci arrivato. So solo che decisi
di farmela al passo, e di piedi, uno davanti all’altro, c’era da metterne
parecchi fino alla meta. Una volta a destinazione avrei ostentato sicurezza e
disinvoltura, pregando in cuor mio che mi confermassero margini di
sopravvivenza con l’ennesimo contratto a tempo. Tempo rubato, tempo debito.
Pioveva. Indossavo scarpe che avevano la suola in cuoio, le uniche di questi
miei anni, regalo paterno recuperato in qualche svendita fuori tutto. Scarpe doverose nello sforzo di rendermi credibile in
quell’incontro dove mi giocavo la sopravvivenza con le solite tre carte sul
tavolo. E sperare che il trucco riuscisse ancora. La pioggia fredda s’era stesa
a velo insidioso sul lastricato veneziano e le suole lisce minavano pure la mia
sicurezza minima di riuscire a stare in piedi. Con la borsa, caricata a fogli,
che mordeva la mia spalla destra. Sempre nello stesso punto, che in quegli anni
precari mi si era scavato nella carne un solco ergonomico reggicinghia. Le
stimmate laiche di una generazione trentenne, obbligata a mostrarsi flessibile
nel lavoro e nello stomaco. Questi nostri sono gli anni del “boom ergonomico” e
ridisegniamo ogni giorno le nostre attitudini su quello che accettiamo di fare
perché è tutto quello che c’è. L’Italia dei Sessanta, industriosa e
industriale, culla dei cambiamenti e delle contraddizioni che proprio Fabrizio
aveva guardato senza stupore, sorridendo a volte amaro e lasciandosi scappare
qualche maledizione, ce la siamo persa e ora, orfani della campagna e negati
all’industria, nel nostro mondo prevalgono i servizi, che nella memoria di
scolaro bambino erano i cessi e forse ci sarà un motivo. E ancora mi ripetevo
ch’era morto, credendoci da subito, perché solo nei film ci si risveglia
chiedendo “dove sono” dopo una botta in testa.
Le scarpe, dicevamo. Roba da
poche lire e, a dichiarare il conio di quel tempo ancora spargo tracce di
memoria storica, che a partire dal 2001 il caffè si pagherà in euro e negli
occhi e nelle tasche degli italiani ci sarà da leggere smarrimento. E allora
vale la pena ricordare che a qualche mese di distanza dall’introduzione della
moneta unica qualche politico aveva rimproverato gli italiani perché
continuavano a pensare in lire spendendo in euro e di conseguenza i conti già
tentennanti si asciugavano(1). Popolo distrattone. Meno male che a redarguirlo
c’erano loro, la classe dirigente, gente abituata a parlare con la tovaglia sulle mani e le mani sui
coglioni. Fabrizio aveva nutrito certe sue invettive anche di questi
personaggi imbrattati di governo e non si sarebbe certo meravigliato quando i
dati sul potere d’acquisto della famiglia media italiana, giusto qualche mese
dopo, avrebbero dimostrato che a voler dare la colpa alla distrazione di chi
spendeva c’era da essere o fini umoristi o tragici incompetenti(2). Ma forse a
lui, a De Andrè, gli sarebbe interessata di più la frenesia dei falsari che
negli ultimi giorni della lira immisero sul mercato tutti i fondi di magazzino,
migliaia di banconote stampate con attenzione maniacale, certe più belle di
quelle vere(3).
Insomma procedevo per le
calli con queste scarpe mie di cuoio rosso macchiato pioggia e passando
l’ennesimo ponte sento sotto le piante del piede un’insistenza d’acqua che va
oltre quello che ero disposto a sopportare. Sollevo il piede, sbircio e scopro
che la suola di millantato cuoio doveva essere fatta in realtà con i cartoni
delle pizze per asporto. Con la pioggia la suola s’era sciolta. Camminavo col
calzino a contatto col selciato. E dovevo andare che mi aspettavano. E la testa
era ingombra di quell’unico fatto, di quella morte inattesa. Fabrizio. Avrei
voluto mi vedesse in quel momento, così degno della mia età e del mio tempo,
con i miei dischi, i miei libri e i miei film a corrermi dentro con le
piastrine e i globuli. Chissà come l’avrebbe raccontato Fabrizio uno come me
che si portava sulle spalle il suo mestiere per le calli veneziane, che l’odore
salso e l’antica memoria di potenza marinara facevano vicine ai suoi carrugi.
M’avrebbe cantato divertendosi mentre campavo credendo normale quella vita
incerta, piangevo un lutto immenso e le scarpe si scioglievano sotto la
pioggia. Sempre perché i politici tromboni, che accennavamo prima, s’erano
imperlati la fronte a gridare che era il tempo del lavoro flessibile. E lo
dicevano muovendo appena la benedetta tovaglia.
Acqua che non si aspetta, altro che benedetta.
Sono arrivato in Campo
qualcosa e m’attendevano. Salendo le scale il mio passo faceva uno sciaguattio,
che rimbombava in quell’edificio illustre precedendomi. Altro che “archivi
fotografici e didattica”, pareva andassi a dare dimostrazione di pratica
circense, trascinandomi dietro un’otaria pinnante per le scale. Mi accolse una
segretaria e le scrutai gli occhi per leggerle lo sgomento che ritengo
d’obbligo il giorno della morte di Fabrizio De Andrè. Non dovevano averla
ancora avvertita, a giudicare dall’efficienza fredda del suo ricevermi e io,
che non so trovar parole mai, lascio ad altri il compito. Il dubbio che la
cosa, il lutto intendo, la sollecasse poco non mi sfiorava. La seguii lungo il
corridoio e lasciai un’impronta umidiccia, che null’era se non il mio calzino
intriso d’acqua, che ora lascia giù anche venature blu. Entrai in una sala col
tavolone enorme e troppe ne ho viste in questi anni e non avrei avuto
soggezione alcuna se non fosse stato per questo mio avanzare incerto sui piedi
zuppi e nudi. Quando ci si fa parecchio male il cervello stacca la connessione,
dando agio al corpo di riprendersi senza restituirci memoria e misura del
dolore. Si sviene e si va in coma per difendersi. Credo di essermi ridotto in
quello stato deplorevole con l’intento inconscio d’avere altri pensieri a
colmare quell’insistenza di vuoto che mi stordiva. Per ubriacare il dolore. Per
non pensare Fabrizio morto. Poi si accese il proiettore alle mie spalle,
preparai i materiali nell’ordine in cui andavano esposti e guardai le facce,
tutte rivolte verso di me. Già, le facce, non m’ero nemmeno accorto ci fossero
e erano tanti. A me capita a volte di fare e dire cose mentre dentro c’è una
voce che mi sussurra “non avrai mica intenzione di farlo”. “Avete sentito che è
morto De Andrè”. Perplessità negli astanti. Alcuni accennarono a chiedere di
chi stessi parlando, perché tutti o quasi ce l’avevano in testa che c’era uno
che cantava da quarant’anni e si chiamava così ma io sono lì per parlare di
progetti didattici e siamo nell’era delle specializzazioni. Roba che per sua
natura nega l’emozione. Secondo quelli attorno al tavolo, questo dolore, in
quel momento, a me non competeva. Altro sarebbe stato se fosse morto il
proiettore. Allora sicuro m’avrebbero accordato le lacrime. Poi qualcuno disse
qualcosa sul fatto che lo ascoltavano da ragazzi e chissà ora e quanti anni
aveva ma si vede che non c’era gran coinvolgimento. Attaccai la parte mia e
tenni botta per un paio d’ore di show. Il piede, per tutto il tempo, non smise
mai di far correre lacrime, perfetta succursale del mio dolore.
A giornata finita, a lavoro
preso, in treno mi aggiustai il passo con un pezzo di plastica trasparente
ficcato nella scarpa. Nello scompartimento trovai una ragazza con la faccia di
una che condivideva certo mio smarrimento. Le due ore di viaggio volarono.
Poi, a casa e tra gli amici,
ci siamo rincorsi col telefono e qualcuno è partito per Genova, qualcuno s’è
trovato a suonare e a bere. Qualcuno ha pianto. Io avevo i cani e una vigna
dietro casa. Tra le altre cose.
A De Andrè ci sono arrivato
per gradi. Piano e senza folgorazioni. Piuttosto sedotto da certo frequentarsi
che faceva quasi abitudine. Io ero quello nella stanzetta, lui quello che
raccontava dal registratore. A dire il vero l’apparecchio per musica domestica
lo chiamavamo “gelosino” anche se la marca non era quella. La Geloso era stata
un riferimento industriale significativo nel panorama nazionale, contribuendo a
dotare le case degli italiani di radio e televisori. Al punto che nel nostro
lessico familiare qualsiasi registratore era stato promosso al rango di
“gelosino”. Archetipo di tutti i riproduttori sonori. Le cassette le tenevo sul
mobiletto vicino al letto e sotto, nello scaffale grande, c’erano i dischi. Già
i dischi, il vinile, con quelle copertine che si prestavano a diventare arte a
loro volta, per non parlare dei titoli e delle note e dei nomi dei suonatori
che si leggevano chiari, ben altra cosa rispetto alla fiducia nelle diottrie
dell’utente di cui sono portatrici le confezioni dei CD. Il primo trentatre
giri che mi sono permesso è stato “Radici” di Francesco Guccini. De Andrè ce
l’avevo in cassetta. Avevo quasi tutto su nastro perché il vinile a usarlo sul
mio giradischi mono da poche lire, roba recuperata col fiato corto di qualche
tredicesima paterna che troppi buchi avrebbe dovuto tappare, si rovinava
presto. E allora, per ovviare all’usura, registravamo i dischi con un
microfonino esterno piazzato nei pressi dell’altoparlante e la qualità del
suono ne risultava agghiacciante anche per le possibilità limitate del
“gelosino” di riprodurre. C’erano delle cassette che me le facevo registrando,
sempre coi medesimi ridotti mezzi tecnici, direttamente dalla radio e i generi
si mischiavano e toccava schiacciare STOP in fretta che altrimenti chi
trasmetteva riattaccava a parlare e se ne conservava imperitura memoria nei
miei archivi domestici. La radio, a pile, era in cucina e nelle registrazioni
in sottofondo si sentivano le padelle che friggevano, il telefono che squillava
con quel trillo che i telefoni tutti avevano, lontani da certe agghiaccianti
personalizzazioni modernissime. Un tappeto sonoro che è già fonte storica per
la descrizione di una famiglia media alle prese con la morsa dei Settanta. Allo
storico l’arduo compito di filtrare la traccia sonora per riuscire ad ascoltare
certi rumori di fondo. In barba alla trentesima generazione del Dolby. E i
nostri strumenti di fruizione musicale ci hanno già obbligato in un ambito
ristretto, superati dalle nuove tecnologie che non hanno avuto pietà per le
nostre abitudini e le nostre emozioni(4).
De Andrè ce l’avevo su nastri
originali, piccolo irrinunciabile lusso, e le custodie mi pare di ricordare
fossero per lo più rosse, ma qui l’oltraggio della memoria mi potrebbe ingannare,
anche se un paio di quelle che mi restano corrispondono alla descrizione. A
dire il vero, fino al ginnasio le canzoni di Fabrizio me le ritrovavo nelle
orecchie quasi sempre senza cercarle, come molti nati insieme a me nella prima
metà dei Sessanta, e nel disperato tentativo di gridare al mondo la mia
decisione di esserci quasi mi sembrava poco efficace servirmi dei suoi arpeggi
e di quella voce che raccontava di puttane delicate mentre a un tiro di
sguardo, nello scaffale accanto del negozio di dischi, certi scalmanati
gridavano rabbia in distorsione e in inglese. In un modo che mi pareva buono
per essere vivi. E a quell’età, nel subbuglio di emozioni, ormoni e attenzioni
nuove, la voce, che va pur’essa cambiando, la si cerca forte negli altri, perché
ci pare che anche la nostra trarrebbe giovamento da quell’amplificazione e
qualcuno si potrebbe accorgere che è il turno nostro di diventare uomini. E
Fabrizio quasi ci faceva timidi delle nostre emozioni e dentro ci confessavamo
che ci piaceva da morire ma in branco avevamo da sventolare altre bandiere. Del
resto certe canzoni parevano mostrare la corda, portatrici di ingenuità che
erano solo di superficie ma che non sapevamo sopportare. Fabrizio, che s’era
preso l’onere di traghettare la musica popolare verso un’esperienza poetica
complessa, con una connotazione letteraria senza precedenti, a tutt’oggi, nel
panorama nazionale, pareva gettarci nell’imbarazzo di doverlo ascoltare
assecondando valzerini e ballate che ci facevano sentire poco in sincrono col
pulsare frenetico di quella nostra stagione adolescenziale. Al punto da
dividermi tra la musica che ascoltavo a casa e quella che condividevo col
branco. E questo capitava con De Andrè, Guccini, De Gregori e l’esperienza si
perde in infiniti rivoli che, negli anni, mi hanno fatto incontrare Lolli,
Ciampi e Conte. Citando a caso e sempre con lo stesso gusto. Poi verso i
quattordici anni scoprii che altri ce n’erano come me, incantati dalle parole e
da quelle voci e fu quella l’epoca di certe condivisioni che erano già segni
d’appartenenza incancellabile, amicizia solida a cui non saprai mai più voltare
le spalle. Fratelli di sangue e di musica. Quegli amici di allora non li ho più
persi.
Negli anni a seguire l’anima,
che pure sostengo di portarmi nello zaino di tela blu, l’ho corredata di quelle
canzoni e di quelle voci, con De Andrè sempre tra i privilegiati dalla mia
attenzione. La mia aspirazione libertaria si nutriva inizialmente di fiaccole
dell’anarchia lanciate a sasso sulla strada e insulti biechi gridati alla
regina d’Inghilterra, in un inquietante frullato che mi metteva egualmente a
mio agio in un osteria o sotto un palco a pogare. Intanto De Andrè s’insinuava,
restava, mentre gli altri andavano. A distanza d’anni certe cose, che avevo
pure imparato a suonare con la chitarra, acquistavano ancora nuova luce e alla
fine ho scoperto che nel mio vizio della scrittura non riesco a cucire una
parola sull’altra se non ho De Andrè a cantare in sottofondo. Qualche tempo fa
ho dato alle stampe un libro che è un diario sconclusionato dei miei giorni e
soprattutto delle mie notti(5). E ho scritto, sempre con quell’accordo
insistente che picchiava nel cuore e le parole che mi davano urgenza. Voglio vivere in una città dove all’ora
dell’aperitivo non ci siano spargimenti di sangue e di detersivo… . L’ho
usata come incipit. Quello che è giusto è giusto.
Quando è nato Orso, mio
figlio, Stefania era ancora sotto anestesia e mi hanno piazzato il nanetto in
braccio e ci hanno lasciati da soli, me e lui, a cercare di capire in che guaio
eravamo finiti entrambi.
Lo
porto alla finestra e scosto la tenda. Fuori c’è un cielo meraviglioso e io
voglio rubare al mondo questo momento irripetibile del suo primo cielo. Poi lo
troverà normale e smetterà la meraviglia ma ora è ora. Comincio a cantargli
piano Hotel Supramonte di De Andrè, che per fare bella figura mi piacerebbe
buttare giù una scaletta meravigliosa di pezzi selezionati per vantarmi di
averglieli cantati tutti con la voce calda e invece ripeto come un ebete le uniche
due strofe di quella canzone. E se vai all’Hotel Supramonte e guardi il cielo
tu vedrai… .(6)
A De Andrè il merito, in questi anni, d’avermi irrobustito
i pensieri. D’avermi insegnato un po’ come si cammina per le strade strette e
come anche le cose minime necessitino di massime attenzioni.
1
“Euro, un anno dopo tra rincari e inflazione”, in Repubblica, 22 dicembre 2002.
2Le indagini dell’Eurispes, di concerto
con le associazioni della Coalizione dei consumatori, sul rincaro dei prezzi
registrano tra il novembre 2001 e il novembre 2002 un incremento dei costi sui
generi alimentari pari al 29 per cento, I dati sono in contrasto con i calcoli
Istat che invece per lo stesso periodo segnalano un aumento del 3,8 per cento.
La discrepanza dei dati tiene conto di un metodo di conteggio diverso
utilizzato dall’Eurispes rispetto all’Istat ma anche volendo adottare la
formula di calcolo tradizionale la variazione risulterebbe del 13 per cento,
tre volte superiore a quella denunciata dall’Istat che come ribadirà agli
organi d’informazione in quei giorni il ministrodelle Attività produttive Antonio Marzano “resta l’unica
fonte ufficiale per la rilevazione dei prezzi”.
3Sulla frenetica attività di spaccio
delle lire false negli ultimi mesi prima dell’avvento dell’euro confronta tra
gli altri Enzo Gallotta, Euro in arrivo, occhio alle lire false, “Il Giornale di
Brescia”, 13 dicembre 2001.
4“Tramontato ormai l’antico disco in vinile,
vero e proprio oggetto rivoluzionario nell’immediato secondo dopoguerra, il consumo
avviene attraverso forme tecnologizzate: alla radio e alle musicassette si sono
affiancati mezzi di ascolto come i compact disc, il walkman e lo stesso
computer. Accanto all’elemento sonoro si è poi affiancato quello iconico: dalle
trasmissioni televisive, musicalli e di varietà si è passati al videoclip,
strumento di una comunicazione musicale che oggi è anche visiva.”
Stefano
Pivato, La storia leggera, IL Mulino, Bologna, 2002, pag 30.
5Giorgio
Olmoti, Torino da bere, Stampa
Alternativa, Viterbo, 2002.
Non ho saputo resistere alle lusinghe del progresso, al canto di sirene della tecnologia che ci tende la mano. Mi sono comprato anche io un cellulare che scatta le fotografie.