In questi giorni sono stato divorato da una febbre
micidiale. Una cosa mai provata prima. Quattro giorni a letto in una sorta di
coma nemmeno troppo vigile, senza mangiare, forse senza bere. Restavo da solo
in casa con i cani che mi vegliavano e la musica bassa. A volte la sentivo la
musica ma più spesso venivo spinto in una sorta di dimensione spaziotemporale
densa e catramosa in cui tutto, ogni minimo movimento, sembrava faticosissimo.
Ho delirato. I libri di tutte le librerie di casa e i dischi
e i fumetti, tutto cadeva dagli scaffali e s’accumulava a terra nella polvere.
Tantissima polvere. Al risveglio la mattina sono andato in studio e a vedere
tutto a posto sono rimasto lì a guardare stordito la teoria infinita di dorsi
di volumi che riesco a riconoscere ormai al minimo ammiccamento cromatico. Non
avevo più misura del reale.
E una mattina ho aperto gli occhi e c’era la luce del giorno
che filtrava dalla tapparella abbassata passando dalle fessure e proiettandosi
sulla parete. Ero nudo nel letto ma non ero più tutto sudato come le altre
mattine e non avevo più la sensazione che qualcuno m’avesse preso a calci le
costole. Accanto a me c’era Ste e stavamo abbracciati e poi è arrivato Dani col
pigiama di Paperinik e s’è buttato sul letto a ridere. Niente scuola, niente
lavoro e noi lì come capita spesso nei festivi, a decidere dove andare a far
colazione, che poi gira e gira sempre da Zichella andiamo. Mentre siamo lì dal
corridoio arriva un lampo. Ci giriamo tutti da quella parte. Ste solleva la
testa dalla mia spalla. Si è accesa la luce del bagno, forse era già accesa
penso io e non ce ne siamo accorti prima. Restiamo lì a fissare quell’alone
giallo sul pavimento del corridoio. Guardo i cani che dormono acciambellati
vicino al letto. Come a sospettare che possano esserci loro nel bagno. Poi
succede. Sentiamo tirare l’acqua. A questo punto ci si ferma il respiro. Dopo
una prima incertezza, mi alzo e mi precipito in corridoio. E vedo un’ombra nera
passare nel corridoio e entrare nell’armadio grande, che sta lì appoggiato alla
parete che ci divide da un altro appartamento, addirittura da un altro palazzo.
Arrivo allo stipite dell’armadio e resto aggrappato con le dita contratte su
quel legno d’abitudine. Adrenalina. Una donna anziana con uno scialle nero sulle
spalle si è infilata nell’armadio e io dietro di lei. Sul fondo del mobile, da
cui pesco ogni giorno il mio giaccone, c’è una porta ancora e da lì intuisco un
altro appartamento, quello della donna presumibilmente. La vicina che non
sapevamo di avere, che percepivamo a volte come capita in questi condomini cresciuti
ai bordi della città industriale, per qualche movimento enfatizzato dal vibrare
delle pareti, un colpo di tosse d’esistenza a cui, nati e cresciuti in queste
batterie per polli industriali, non abbiamo mai dato attenzione. E la vedo che
si infila veloce e intanto penso che la casa, la nostra casa è sempre vuota e
questa entra e gira per le stanze e come uno stupido immagino che legga i miei
quaderni scritti fitti a mano e mi monta una rabbia maledetta. Sto quasi per
entrare ma la vecchia mi compare all’improvviso davanti, un’ombra scura
enfatizzata dal controluce che mi regala solo svantaggio. Grida e ce l’ho
addosso. Mi respinge dalla mia parte, e alza le braccia al cielo ricordandomi
una di quelle prefiche fotografate da Franco Pinna negli anni Cinquanta. E
invece le dita le si serrano su una barra metallica, stiamo parlando di
frazioni di secondo, e cala fragorosa davanti a me una serranda di metallo,
come quella delle vecchie botteghe. Mio padre mi raccontò una volta che i
fascisti trovarono per strada un compagno socialista di mio nonno che non si
era tolto il cappello vedendoli passare. Lo misero sotto la serranda di un
negozio e giù a fargliela cadere di peso sulle spalle come una ghigliottina. Papà
s’era spaventato, avrà avuto sei anni, pure pensando che quella fine la poteva
fare anche il nonno. E il rumore mi immagino dovesse essere proprio quello. Un
fragore di lamiere e perni ingiuriati dall’ossido che gridano una guerra di
corazze impossibili.
Mi ritrovo in un corridoio insieme al mio cane. Ho i vestiti
addosso e ancora tremo e ho una rabbia fottuta che mi morde dentro. Mi fanno
accomodare in un ufficio e gli racconto la mia storia e la luce del bagno e la
vecchia e quel fragore di serranda. Ascoltano. A poco a poco attorno a quel
tavolo si radunano tutte le persone che sono nell’ufficio. Quando ho finito il
tizio a cui sto forse sporgendo una denuncia, non è chiaro, mi dice che devo
seguirlo. Arriviamo in una vecchia aula, la stessa dove al DAMS tenevo le
lezioni di storia della fotografia, e questo che mi accompagna mi mostra una
sedia e mi dice “Si accomodi. La pregherei di ripetere il suo racconto alle
persone che vengono a fare le solite denunce perché è emblematico, lei mi
capisce, è davvero emblematico”. Non che non capisco ma non dico nulla, io che
di solito conta fino a tre e sto già piantando un casino ciclopico, non dico
nulla. Anzi, mi alzo e ricomincio a raccontare dall’inizio. “mi sono svegliato
ed ero nudo sul letto ma non ero sudato come….”. Mentre parlo vedo che arriva
altra gente e un poliziotto in divisa dice “Restate in corridoio, ha già
cominciato, non può riprendere dall’inizio, appena finisce gli chiediamo
gentilmente di ripetere anche per voi”. Sono pietrificato, vedo arrivare gente,
sempre più gente e ripeto ancora la mia storia e ancora poi. Non oppongo più
nessuna resistenza. Racconto e sento ogni volta quello stridere di serranda che
mi gela il sangue. La mia voce. Percepisco la mia voce non come una cosa che
arriva direttamente dal mio corpo ma piuttosto come una sorta di annuncio della
stazione ferroviaria lontano e leggermente distorto. Anche le labbra sono fuori
sincrono.
Mi sveglio nella stanza buia e vuota. Nudo e sudato. Tremo.