Da dove è cominciata. Me lo sono chiesto la mattina all’alba
del 21 giugno, bussando alle porte del giorno più lungo dell’anno e facendomi
trovare pronto al viaggio. Me lo sono chiesto mentre Ste filmava la mia
partenza scossa dalle risate, io e lei da soli come è successo spesso nelle
cose della nostra vita, a guardarci e a sospettare che non c’è altro modo di
condividere. Me lo sono chiesto mentre sollevavo la saracinesca del garage, lo
stesso di un inverno speso con Orso a ridare vita a quell’incredibile
Frankenstein che ci ostiniamo a chiamare motorino razza Ciao anche se
l’approssimazione dei nostri interventi ha finito per allontanarlo
significativamente dal bel progetto originario della Piaggio. Sostanzialmente
invariato dal 1967, il Ciao è stato ritirato dal mercato nel 2006. Ne hanno
costruiti circa tre milioni e mezzo di esemplari, invincibili e inarrestabili. Il segreto del suo successo sta tutto
imperniato sul tempo in cui fu originariamente concepito. Gli anni del Miracolo
economico in cui l’Italia si presentava sui mercati internazionali con
l’eccellenza di un’offerta che coniugava bassissimi costi di produzione e qualche
idea. Già, quelle belle idee che pare siano state vendute in saldo e esaurite
definitivamente al presente. Quaranta chili circa pesa un Ciao e si permette di
fare una bella cinquantina di chilometri con un litro di benzina. Numeri che
fanno pensare e che a guardarli con l’occhio della crisi di questo nostro tempo
fanno davvero impressione e quasi propongono una soluzione. Contro la storia e
le storie. Un motorino razza Ciao
di stato concesso in uso a ogni famiglia, questo ci vorrebbe. Addavenì
Piaggione.
Ho quarantotto anni, me l’ha chiesto il poliziotto quando mi
ha fermato nella notte alla guida del mio possente mezzo quanti anni avessi e
rideva e non ha voluto nemmeno vedere i documenti e ridevo anche io ma senza
farmi vedere che nemmeno quella soddisfazione voglio dare. Me lo ricordo che
aspettavo i quattordici per poter guidare un maledetto sogno da quaranta chili
e con un rumore nasale che a sentirlo arrivare già mi metteva in emozione. Lo
volevo il motorino razza Ciao perché era la prima possibilità che offrivo a
quella maledizione nomade che s’è impossessata da subito dei miei gesti, di
guadagnare spazio e strada oltre la licenza del passo. Quanto l’ho desiderato e
quanto lo desideravamo. Vivevamo al bordo estremo della città e non c’era nulla
oltre il campetto da basket asfittico e i prati sfibrati in respiro di fabbrica
e l’autostrada che ci sfrecciava di lato e che ci ricordava continuamente che
c’era da andare e vedere. Sono cresciuto sul bordo dell’autostrada con quel
pugno di amici che, con le significative defezioni di quelli che, la statistica
di quella stagione lì è implacabile, si sono fatti trascinare via dalla piena
della roba o dalla percezione di un tempo che non si poteva coniugare se non al
presente: Sono cresciuto con quelli che sono ancora i miei fratelli adesso che
la vita ci ha frullato per il mondo. E il motorino razza Ciao era una
possibilità, era la possibilità. Ci potevi andare a vedere le cose in giro, ci
potevi portare le ragazze e… come dici?... certo è vietato andare in due sul
motorino… certo certo, la multa, i vigili… lo sapevamo bene… ma ce l’hai
un’idea di cosa voglia dire dividere la sella del Ciao con una ragazza a
quindici anni… altro che multa… nemmeno la pena di morte ci poteva fermare, che
ci fosse stata saremmo crepati tutti col sorriso. E quella mattina del 21
giugno, mentre il Ciao partiva con mezza pedalata, segno che in fondo s’era fatto
un buon lavoro sulla meccanica, me lo sono detto che se dovevo pensare da dove
era cominciato tutto dovevo andare indietro proprio a quella stagione lì, in
bilico tra l’odore di femmina e quello della miscela al due per cento. E per il
maledetto sogno di andare sono partito.
Ci ho pensato per tutto l’inverno,
un lunghissimo inverno passato a respirare corto l’aria di una Torino resa
asfittica dalla crisi e dalla disperazione che aleggia nei palazzi delle
periferie dove ti domandi di cosa cazzo vivano ora che la fabbrica è un
maledetto leviatano spiaggiato. Ci ho pensato per tutto l’inverno mentre
vent’anni di mestiere mio tra le pagine dovevano adattarsi facendosi posto tra
quegli altri poveracci della razza mia ficcati nelle pieghe della tecnologia e
della multimedialità. Ci ho
pensato per tutto l’inverno rimanendo in garage per ore con mio figlio che alla
fine s’è fatto una ragione di certo mio ringhiare ai dadi e ai bulloni e ha
imparato a ringhiare a sua volta al metallo per farsi rispettare. Ci ho pensato
per tutto l’inverno, leggendo resoconti di altri viaggiatori supportati da
mezzi d’appoggio e incredibili tecnologie, i messi peggio si portavano almeno
un motore di ricambio, e con la consapevolezza che io avrei scelto ancora una
volta il bagaglio del nulla per avere tutto da guadagnare comunque vada.
Intanto andavo avanti a raccontarla che mi sarei fato da Torino a Udine con il
motorino razza Ciao, con la consapevolezza che più lo dicevo e più dovevo tener
fede all’impegno. Cercando un vincolo alle mie stesse parole e ai miei stessi
gesti. Poi una mattina mi son svegliato e proprio come nella canzone m’è
rimasto solo da dire bella ciao, che quell’altra non m’ha fermato mai da tutta
una vita, forse è un bene forse non saprei ma tant’è, e rideva a vedermi
partire vestito come il reduce di tutte le guerre. Un’attrezzatura specifica
non ce l’avevo. Ho fatto innumerevoli chilometri in moto per il mondo e ho
dormito in posti assurdi sdraiato sul cassone del mio vecchissimo pick up ma
non ho mai avuto quello che passa alla cronaca come abbigliamento tecnico.
Questa volta meno che meno, se si esclude il casco integrale scelto per la
comodità di calzata che avrebbe agevolato nella lunga percorrenza. E via
andare. Il Ciao ha viaggiato per ventitre ore con la modalità, due ore in
viaggio mezz'ora fermo. Cinquanta chilometri con un litro circa e una spesa
complessiva di circa sedici euro di benza. Il circa è la mia unità di misura
preferita. Altro che viaggi sostenibili, questo mio stava in piedi con lo sputo. Tutto in bilico sulla manopola del gas e
sulla minima variazione che faceva la differenza e poteva portare al naufragio.
Tutto sospeso, tutto in ascolto del rumore, del respiro, della strada, delle
cose attorno. Tutto con attenzione e abbandono, una cosa difficile da spiegare.
Come far l'amore per capirci. Una cosa fantastica, un'adrenalina oltre ogni
ragione plausibile. Ancora come far l'amore, per capirci sempre. Con la moto
vera o con il mio fidato camioncino ti sembra pure che la strada la sappiano da
soli e invece lì era scoprire il mondo da un respiro all'altro. A volte mi sono
fermato di più, a volte di meno. Sono stato blindato tre volte dalle forze
dell'ordine perchè è tutta la vita che va così. La terza volta, alle due di
notte, ho chiesto se per caso c'era un bandito rapinatore e killer che
imperversava per la pianura padana elusivo in sella al suo Ciao maledetto,
perchè in quel caso mi sarei potuto dire vittima di errore giudiziario. Invece
erano solo curiosi. Anche la gente nei bar era curiosa ma non avevano
mitragliette al collo. Fa la differenza. Il viaggio, la guida, tutto è stato oltre
ogni plausibile retorica occasione di confronto non solo con un mondo alla
moviola, mi superavano anche i bambini con il triciclo, ma anche l'occasione
per parlarmi da solo a solo dentro il casco e sciogliere qualche nodo con me
stesso e ritrovarmi finanche simpatico. L'ho sempre sospettato ma nella notte
me lo sono detto, non ho mai il tempo per farlo, che mi voglio bene e che la
vita che mi sono regalato era proprio quella che volevo. Un topo, un grosso
topone di canale, dopo Treviso e in piena notte ha attraversato la strada e ci
siamo guardati negli occhi, il tempo c'era e di slancio è saltato oltre me e il
motorino razza Ciao passandomi sui piedi. Privilegi della lentezza.
E ancora in una statale al buio, mentre i camion scassi della notte, quelli che non si fermano mai e vanno in impossibili territori dell'est estremo dal lombardoveneto estremo, cercavano di farmi letteralmente la pelle, ho finito la benzina. Il motore stava morendo e tossiva e ero su un cazzo di curvone buio e dall'altra parte, nel nulla, un distributore di una nota multinazionale dei petroli con l'automatico e il furgone dei panini con le salsicce. C'erano pure due vistosissime signorine che lavoravano alla luce del self. Panino, birra e mezz' ora di riposo sdraiato nell'erba a guardare il viavai. Quando sono ripartito le ragazze mi hanno salutato ridendo molto. Una s'era avvicinata quasi a tentare commercio ma le avevo fatto notare che il sedile del ciao non è reclinabile e quella non la finiva più di ridere. Dice che ho la faccia da tante cose ma non ho quella del puttaniere e uno alla faccia deve portare rispetto.
E ancora in una statale al buio, mentre i camion scassi della notte, quelli che non si fermano mai e vanno in impossibili territori dell'est estremo dal lombardoveneto estremo, cercavano di farmi letteralmente la pelle, ho finito la benzina. Il motore stava morendo e tossiva e ero su un cazzo di curvone buio e dall'altra parte, nel nulla, un distributore di una nota multinazionale dei petroli con l'automatico e il furgone dei panini con le salsicce. C'erano pure due vistosissime signorine che lavoravano alla luce del self. Panino, birra e mezz' ora di riposo sdraiato nell'erba a guardare il viavai. Quando sono ripartito le ragazze mi hanno salutato ridendo molto. Una s'era avvicinata quasi a tentare commercio ma le avevo fatto notare che il sedile del ciao non è reclinabile e quella non la finiva più di ridere. Dice che ho la faccia da tante cose ma non ho quella del puttaniere e uno alla faccia deve portare rispetto.
E ancora sono finito in
un’osteria a pranzo con dei vecchi che gli mancava il quarto per le carte e lo
sai come vanno queste cose e a me non mi aspettava nessuno e c’era il vino e il
salame e quando hanno saputo dell’impresa mi hanno riaccompagnato fuori,
ficcati nel cuore di una Lomellina che nemmeno sospettavo prima, e mentre
andavo via m’hanno battuto le mani anche se avevo perso a tresette.
E ancora a cena mi sono fermato
in una specie di compound in mezzo al nulla e c’erano una decina di Harley
parcheggiate a pettine e a pettine ho messo anche il mio Ciao e quelli facevano
le facce cattive ma con me caschi troppo male che io mica accendo la moto per
andare al bar di fronte e ci metto un attimo con l’accenno di due parole a
lavorare sul tuo senso di colpa di essere un avventuroso da salotto e poi giù
birre e alette di pollo che c’erano solo e soltanto alette di pollo e il
karaoke, con due ciccioni lui e lei che cantavano a strappa gola le canzoni di
Baglioni. Anche lì partendo m’hanno battuto le mani e non ho pagato nulla. Ma
con quelli lì so trattare da sempre, è con i consulenti globali, i cravattuti e
lampadati che mi trovo in disagio e rischio la rissa.
Però una cosa la voglio raccontare per bene. Ci tengo. Ho attraversato tutta la pianura padana passando dalle strade secondarie, saltando le città e rimanendo sempre nella provincia. Cercavo le tracce di quel cuore pulsante produttivo che aveva generato il miraggio del miracolo economico e invece, per dirla con Ermanno Rea, ho attraversato la polpa maleodorante della dismissione. Le osterie sono state cancellate dall’agghiaccio dei centri commerciali e poi cartelli VENDESI sulle case, sulle auto, sulle facce delle persone. Fabbriche morte e cancelli dilaniati a dare misura di un paesaggio postbellico senza soluzione di continuità. Una nozione del dolore che non mi ha abbandonato per seicento chilometri e che non ho smesso di percepire in antitesi a quella mia gioia dell’andare che se non sai viaggiare leggero non puoi capire.
Sono arrivato all’alba e mi sono
fermato all’inizio di Viale Venezia, la periferia estrema della città dove sono
cresciuto. Ho fatto la foto al Ciao sotto il cartello UDIN e l’ho fatta per me
che me ne fotto se non ci credi a ‘sto viaggio. Ho maledetto la sorte che m’ha
privato del baffone intermittente che per mille anni campeggiava sul viale
dalla fabbrica della birra Moretti ma va bene così in fondo. Una volta arrivato,
nel bosco dove sta nascosta casa mia, ho dormito tre ore e poi una doccia e via
a festeggiare a quaranta chilometri da lì, sempre in Ciao, e bere e ridere e
bere e ridere e bere e ridere e poi altri quaranta chilometri che erano
arrivati Ste e Dani in auto da Torino e di nuovo a un'altra festa e altre facce
e sempre le storie mie da pompare a flusso corposo nelle vene. Tutta la valle
l'ha saputo in un baleno e mi fermavano per strada e mi sono fatto mille foto
col motorino e il sorriso del nulla. Tutti avevano un Ciao nella cantina e nel
fienile e tutti sono cresciuti col sospetto che si sarebbe potuto fare. Ora
glielo posso dire che era un sospetto legittimo. Ma questa è un'altra storia e
i più svegli anche tra voi pubblico da casa, l’avranno capito che il Ciao era
una scusa bella e buona.
Ciao.