mercoledì 17 dicembre 2014

Big Joe and Phantom 309







vabbè, non è aria di scrivere racconti di natale ma qualcosa la posso fare. vi propongo la mia versione di Big Joe, una canzone che il vecchio Tom si giocava dal vivo quando era ora di averci un racconto che facesse correre i brividi tra le femmine delle prime file. e pure tra tutti gli altri ma a me e Tom ci son sempre piaciute le femmine delle prime file che le percepiamo anche senza guardare e degli altri ce ne fottiamo. magari ci sono anche degli errori nella mia versione, sono uno che ha il dono dell'errore sempre, ma io me la canto così quando la sento. salite in cabina che guido io.

prima di leggere fai andare la canzone. tutto ti devo dire.









Insomma, m’è capitato di trovarmi di nuovo sulla costa orientale
Qualche anno fa, giusto per guadagnarmi un po’ di spiccioli
Come fanno tutti, avete presente come gira certe volte
Ma i tempi diventarono duri da reggere e mi toccò una merda di jella maledetta
Mi scassai il cazzo di andarmene in giro
E presto me la feci a tornare verso la mia città.
Presi passaggi per qualche miglio
Nei primi due giorni
E mi feci l’idea che in un paio di settimane sarei arrivato a casa
Se mi diceva di culo.
La terza notte però rimasi a bordo strada
Dalle parti di un cazzo di crocicchio freddo e sperduto
E mentre anche la pioggia cominciava a versare la parte sua
Stanco, affamato e preso a morsi dal freddo
Vidi i fari di un autotreno
Far luce sulla collina.
Immaginatevi il mio sorriso
Quando distinsi i compressori dei freni che si azionavano.
Saltai in cabina
Già gustandomi il calduccio che doveva esserci lì dentro.
Al volante, no dico al volante, c’era uno enorme
Tipo una bestia da duecento chili
A sentire la stretta di mano da gigante.
Con una ghignata mi disse
“Il mio nome è Big Joe
e la bestia che mi tengo sotto il culo è il Phantom 309”
gli domandai perché avesse chiamato il camion così
ed quello si girò dalla mia parte e disse
“Perché non troverai un camionaro su questa tratta e pure sulle altre
che potrà mai dire senza vergogna
di aver visto qualcosa di più delle luci posteriori
di Big Joe e del Phantom 309”.
Così per buona parte della nottata andammo e parlammo.
Avevo le mie storie e Big Joe le sue
E mi fumai quasi tutte le sue Viceroys
Mentre Joe viaggiava come uno fuori bolla sul serio
E, cari miei, il cruscotto era tutta una luce
Tipo i vecchi flipper Madame la Rue.
Fino a quando apparvero all’orizzonte in maniera che mica mi spiego troppo bene
Le luci di una stazione di servizio per camionari.
“Ragazzo, scusami, ma penso che tu debba scendere qui
Ho una deviazione da fare un po’ più avanti”
E che mi si danni l’anima se non mi lanciò una monetina
Da dieci
E a voce bassa
“Vai in quel bar ragazzo e prenditi un bel caffè
alla salute di Big Joe”
e così mentre Big Joe e il suo Phantom 309
venivano inghiottiti dal buio
e attorno non c’era un cristo di nessuno
m’avviai al bar
e ordinai una tazza di caffè nero dicendo
“questo lo offre Big Joe”
Immediatamente nel locale si fece un silenzio di quelli
Che puoi sentire le gocce cadere dai rubinetti che perdono in cucina
E il barista perse colore in faccia
“Problemi? Ho detto qualcosa di sbagliato?” dissi con una smorfia
“Niente Ragazzo, capita spesso ‘sta cosa qui.
Vedi tutti i camionisti qui conoscono Big Joe.
Ma è meglio se ti racconto cosa capitò una decina di anni fa
Proprio a quel crocicchio freddo e sperduto
Dove Joe ti ha caricato.
C’era uno scuolabus riempito a scoppiare di bambini
Che tornavano da scuola
E se ne stava in mezzo alla strada
Quamdo Joe arrivò giù dalla collina
E sarebbe stato un massacro se Joe non avesse dato di sterzo
andando a finire la sua corsa in un fosso
Da queste parti dicono che scelse di crepare per salvare i bambini
E proprio quell’incrocio freddo e sperduto
Fu il finecorsa per Big Joe e il suo Phantom 309.
La cosa divertente è che ogni volta che la luna chiama pioggia
Dicono che Big Joe si fermi a caricare qualcuno, come è capitato a te.
Ascolta ragazzo” mi disse “prendine un'altra tazza che offre la casa
E vorrei che questa moneta da dieci
La portassi con te
Tienila stretta
Come fosse un souvenir,
Il souvenir di Big Joe e del Phantom 309”.






martedì 21 ottobre 2014

Tango figurato del disdoro: figura 6





Il divano era quello in pelle recuperato da qualche avanzo di trasloco di amici e che per anni è stato il nostro Pequod. La sera dopo cena io e Dani ci piazzavamo sul divano e partivamo alla volta del Mar dei Palazzi. Spesso incrociavamo altre navi da salutare e c’era Giacinto Corsaro Dipinto, c’era la Calipso piena di scienziati subacquei, c’era il Sottomergibile, c’era Bomby Dick la balena ciccia e soprattutto c’era lui, il Comandante Diavolo. Infatti le altre barche e i cetacei che incrociavamo e salutavamo se erano amici o facevamo bersaglio dei nostri cannoni se non ci piacevano, galleggiavano su un mare trasparentissimo e erano trasparenti anche loro ma Comandante Diavolo stava lì sul tavolo, dritto al timone e affrontava la maledizione di essere un eroe silenzioso. Quando anni dopo mio figlio scoprì che c’era una canzone dedicata a Germano Nicolini, il comandante Diavolo, non ci voleva credere che anche gli altri sapessero di quella barca che avevamo trovato nei mucchi di robaglia buttati in terra al mercato di Porta Palazzo. L’avevamo pagato un euro il Comandante Diavolo e da allora veglia sulle nostre tempeste domestiche. Il comandante Diavolo vero per mare forse non c’è mai andato ma questo è un dettaglio. Quella sera avevamo cenato da poco, avevamo già fatto salire i cani a bordo e stavamo levando le ancore.  Nessun film alla televisione ci avrebbe convinti a fermare la nostra crociera in quella casa in affitto che a norma aveva solo la pasta con le melanzane. Sta di fatto che il ramponiere di un’altra baleniera, per disgrazia o per dispetto, lascia andare il suo attrezzo micidiale verso la mia schiena. Un dolore maledetto. Mai sentito. Ste corre a vedere cosa sta capitando e mi ritrova per terra in preda a fitte tremende. Colica renale. Dani ha due anni e se vi dico che ora ne segna quattordici fate due rapidi conti. Nessuno può accompagnarmi al pronto soccorso e io non posso certo prendere la moto. Chiamo l’ambulanza per la prima e, lo giuro, ultima volta della mia vita. Arrivano due avanzi di astanteria che mi guardano e dicono “Vabbè, mica possiamo portarti in barella con la scala così stretta. E poi sei grande e grosso. Ce la fai a scendere a piedi. Ti reggiamo noi”. Dice che il dolore della colica renale, da allora non ne ho più avute, è secondo solo al parto e io ero alla colica gemellare. Arrivati in ambulanza mi siedono su uno strapuntino e partono e a ogni buca una maledizione. Per fortuna l’ospedale è molto vicino a casa mia. Il pronto soccorso è il set de “I guerrieri della notte” però non quello originale ma un remake girato da una società di produzione del Tagikistan. Arriva di tutto. Persone intere e pezzi sfusi, gente aperta a bottigliate e decine in coma etilico come se piovesse vino fuori, tossici in carenza, barboni in cerca di riparo per la notte che giurano di avere qualsiasi malattia, ogni tanto entra un malato standard, un ragioniere con sospetto d’infarto o un geometra preso da labirintite ma vengono trattati come degli intrusi. Se vomiti in sala di attesa guadagni punti a bestia. Se rubi lo stetoscopio al medico di turno sei reginetta della notte nosocomiale. Mi lasciano lì, come Ungaretti nei giorni di Natale. Passano e non mi degnano di uno sguardo e corrono che c’è una che sta partorendo un alien nell’altra stanza. Poi ripassano con le mani che grondano sangue verde, che quello è alien davvero, e vanno a ricevere una scatola di montaggio di tre persone direttamente spedite dalla tangenziale dove c’è stato un incidente a catena. E io lì a soffrire quel dolore che è secondo solo al parto e quindi, a mio giudizio, dopo alien c’ero io. A un certo punto arriva un infermiere e mi dice di sedermi su una seggiola che è uguale per design e dimesioni a quelle dell’asilo. Riesco a incastrare una chiappa tra i due braccioli. Prende un bombone di flebo e mi pianta di fretta un ago da calzolaio in vena “Vedrai che andrà meglio” mi sibila mentre corre verso uno con la sedia a rotelle che il volontario ha lasciato parcheggiato sulla rampa in discesa delle ambulanze. Sorrido e svengo quasi subito. Non entro negli aspetti tecnici ma sono certo che buona parte della mia generazione potrà capire se dico la magica parola: fuorivena. Mi si è gonfiato il braccio a scoppiare e son svenuto. Mi risvegliano e mi piazzano su un letto di quelli per portare le cavie anziane in sala operatoria. Non ci sono letti liberi mi dicono e quindi mi sistemano in corridoio, vicino alla porta di ingresso delle barelle delle ambulanze. Faccio a tempo a guardare fuori in cortile e vedere un enorme nero che è arrivato con un motorino, un Garelli credo, e si regge la faccia che gli hanno aperto in due. Cammina senza fretta ma chiede se possono richiudergli il volto gentilmente. Mi addormento e non so più nulla.
La mattina, lo scoprirò dopo che è mattina, sento una voce familiare che mi risveglia dal sonno pesante indotto dalle sostanze che, più o meno con perizia, mi hanno buttato in circolo. “Ma che cazzo stai facendo”. Non c’è dubbio la voce è quella di Ste ma il tono non è quello di chicorre al capezzale del caro infermo. Che sarà mai. Apro gli occhi e la vedo. Avrà una settantina d’anni ma chi può dirlo, magari m’è coetanea. Malgrado il tempo sia clemente indossa una sorta di giaccone pelosetto color verde biliardo zona fumatori. Capelli giallo nicotina. Grossa. Puzza come un cane bagnato ma più intenso. Ed è ficcata nel mio letto, sotto le coperte. Con me. La guardo e guardo Ste. La gentile barbona che ha trovato rifugio dentro le mie coperte alle mie confuse domande non rivolge minima attenzione. Sta facendo colazione bevendo un barattolo di lenticchie che sa iddio come si è aperta dentro il letto. Ingolla a garganella e il sughetto le corre frivolo giù lungo il mento. “Cazzo, alzati da lì” mi urla Ste che evidentemente ritiene che ci sia una mia colpa e la flagranza. Per tutta risposta la tipa, che ha finito di rifocillarsi con la colazione dei campioni, si gira verso Ste e le pianta un rutto in faccia che le fa i colpi di sole ai capelli. Rotolo giù dal letto. Maledico il mondo. Il dolore non si sente più forte come la notte. Vado dal medico e firmo per uscire, non ci voglio stare ancora un minuto lì dentro. Il medico legge quelle quattro righe sghembe che mi riguardano e mi chiede senza interesse “Lei beve?” “Pochissimo” rispondo io “Malissimo” risponde lui. Mi illumino e sento che diventerà il mio medico curante a vita. Lui intuisce l’equivoco “Acqua, parlavo dell’acqua, deve berne moltissima durante il giorno” .“Ah… grazie… ho capito” rispondo io visibilmente deluso dalle frontiere della medicina che ancora non si decidono a spostare i confini.

Per strada, a piedi, cammino barcollando e Ste non mi parla, indecisa se portarmi rancore. Ma è già l’alba in questo grumo postindustriale che dobbiamo pensare essere la nostra città ora. Alla fine ridiamo e quella risata risveglia il ramponiere nelle reni che m’assesta un’altra stilettata. Ma si fa l’abitudine a tutto e andiamo in un bar a fare colazione. 




mercoledì 1 ottobre 2014

Tango figurato del disdoro: Figura 5

le dieci figure di merda che ti hanno segnato nella vita.
numero 5
Siamo nei giorni che precedono il natale. Siamo nel capoluogo piemontese vinto dalla morsa del gelo. Siamo nei primi anni del nuovo millennio, a occhio sono passati quattro anni da quando abbiamo passato la cilindrata delle nostre agende a duemila. Orso, mio figlio, ha quindi quattro anni appena e frequenta con bel profitto l’asilo di Cavoretto. A questo punto devo cercare di ricollocare geograficamente la vicenda perché è possibile che, per quanto a questo punto mi sembri impossibile, ci siano persone che non hanno ben chiaro dove sia Cavoretto. Partiamo dal presupposto che noi all’epoca si viveva a Torino città e per i più esigenti possiamo dire che eravamo a un passo dallo stadio del grandissimo Toro e a uno sputo e mezzo dalla madre di tutte le fabbriche. Abbiamo cambiato casa da allora ma siamo sempre in zona. Quando s’è trattato di scegliere l’asilo ci siamo resi conto che questa città è ormai avvitata alla carogna spiaggiata della produzione che ne ha segnato pesantemente la dimensione antropologica, sociale e emotiva. Così i giardini d’infanzia ci sono sembrati una sorta di preparazione alla cupa scansione dell’esistenza attraverso i ritmi della produzione, magari era solo suggestione nostra, magari a uscire tutte le mattine guardando verso i cancelli e canticchiando “Vincenzina e la fabbrica” nemmeno ci siamo molto avvantaggiati. Sta di fatto che Ste decide di iscrivere Orso all’asilo di Cavoretto. Trattasi nella fattispecie di un paesetto sulla collina torinese. Giusto qualche chilometro di curve in salita che mi hanno immediatamente convinto della bella pensata di Ste e che mi hanno fatto immaginare le gare in salita con la moto che avrei ingaggiato con gli altri papà. Ogni mattina, piovesse o ci fosse il sole, Ste , che è di una tempra che femmine così non le fanno nemmeno all’Ansaldo, prendeva la bici e arrivava fino al lembo ultimo della salita, poi prendeva un autobus senza mai fare il biglietto e saliva a Cavoretto. Giuro che ho visto Ste e Orso sparire nella nevicata sulla loro bici, la stessa che avevo trovato per strada nella campagna senese e m’ero rimesso a posto alla meglio. Orso si chiama davvero così, mica per scherzo, e già da piccolo era di buona pezzatura e il seggiolino si fletteva pericolosamente. Per fortuna un giorno amici ci hanno regalato una vecchia vespa e, guarda tu i casi della vita, sono andato a prenderla che non funzionav,a proprio a Cavorett. L’ho spinta di notte per quei dieci chilometri fino a casa e l’ho fatta ripartire consentendo all’equipaggio mattutino di agevolarsi di un mezzo sfrecciante e efficace. Ero fiero di quella mia avventura di recupero.
Ma dicevamo del natale. In casa editrice in quei giorni si chiudevano volumi e cataloghi e io lavoravo come un tragico scarabeo stercorario. A un certo punto mi arriva la telefonata di Ste “Guarda che la recita sta per iniziare”. Cazzo, la recita natalizia all’asilo. Ci sono tutte le mamme, tutti i papà, tutti i nonni e tutte le tate peruviane. Sono dalla parte opposta della città. Fuori è già buio da un pezzo, fa un freddo cane, lo ripeto così enfatizzo, e non ho una macchina ma solo la mia Guzzi California. Mi infilo il giaccone scendendo al volo le scale a quattro a quattro. Arrivo in strada e la sella, come capita spesso d’inverno, dopo ore di attesa delle mie chiappe trepidanti, è coperta da una brina che rischia di influire tragicamente sulle mie pulsioni da lì a sempre. Mi piacerebbe dire che salto in sella ma il California 1100 a carburatori è una cazzo di massa ferrosa mica da scherzarci e se sbagli la mossa per recuperarti ci vuole la protezione civile e i cani da macerie. L’abitudine di una vita sulla moto però gioca a favore e parto sfrecciando per i viali. La moto si intraversa sull’asfalto ghiacciato ma confesso che quello è il bello. Nella fretta non ho preso i guanti e il casco si appanna e devo tenerlo aperto. Se sei uno che ha avuto almeno un Garelli nella vita ora lo sai cosa vuol dire non avere i guanti a Torino a fine dicembre di sera con la brina che ti inchioda le palle alla sella e con le dita che in un breve lasso temporale si trasformano in magici Polarelli. Se non hai idea di cosa io provassi in quei momenti perché nemmeno il Garelli nella tua vita allora prova a immaginare che al posto della spina dorsale ti nasce un ghiacciolo arcobaleno e il cervello ti diventa come un Cucciolone, con tanto di formidabile barzelletta a fumetti sopra. Se ancora non ho reso l’idea rinuncio a evocare la ritirata di Russia e la sacca maledetta del Don e ti prego di non continuare oltre la tua lettura. Sta di fatto che corro come un pazzo e brucio i semafori e brucio anche le dita e la sensazione è quella delle unghie strappate. Arrivo alla salita e me la faccio a gas spalancato, rischiando nelle pieghe con la ruota che era quella che costava di meno e ora capisco perché. Alla fine arrivo nel cortile dell’asilo. Non c’è uno specchio e non mi posso vedere. I capelli che all’epoca portavo lunghi e fuori controllo inconrniciano un volto paonazzo e il corpo già pesante di suo e peggiorato dal giaccone enorme che indosso per salvarmi dal freddo. Le mani sanguinano dalle pieghe delle dita e, ma questo non ho modo di constatarlo subito, anche in corrispondenza delle pieghe all’angolo esterno dell’occhio, quelle di quando strizzi per il sole o il freddo in faccia, i tessuti hanno ceduto quando ho disteso il volto e ora sembro la madonna di Civitavecchia che piange sostanza ematica. Senza nemmeno l’avallo dei credenti. Sono una sorta di morto vivente uscito dalla bella fantasia di Romero. E così faccio il mio ingresso nell’asilo e mi dirigo alla sala delle recite. Lì non mi hanno mai visto perché, come ho già detto, è Ste che ogni giorno affronta la salita e porta il ragazzo a conquistarsi un pezzo di carta che gli sarà utile nella vita. Entro e attacco a fare le foto, che quello è mestiere mio. Lo capisco subito che la gente mi guarda con insistenza, sono uno di strada e me ne accorgo quando qualcuno mi punta. Se poi mi puntano in ottanta persone diciamo che vado in leggera tensione. Ste è davanti ma mi ha visto. Anche Orso mi ha visto e sorride. Questo volevo. Questo e basta. Mi rilasso. Però Ste si gira e mi fa dei brevi cenni segnalandomi qualcosa sul viso. Forse mi chiede dove ho gli occhiali. Mai io riesco a fotografare anche senza. Tranquilla, le faccio cenno, tutto sotto controllo. La recita finisce. I piccoli vanno dietro le quinte e i genitori rivolgono la loro attenzione al rinfresco apparecchiato sui banchetti con le torte e le patatine e le bibite e anche delle bottiglie di vino. Eccolo, penso io, il vino. Con tutto questo maledetto freddo ora mi bevo un goccio di Barbera e mi recupero alla vita. Però prima mi devo dare una ripulita alle mani con il sangue secco che ancora corre tra le dita. Della faccia nemmeno mi rendo conto e poi è l’aspetto mio solito con la barba lunga e il corpo fuori misura che non facilitano mai. Insomma afferro la bottiglia, la stappo con lo svizzero che ho in tasca e comincio a vagare tenendola stretta in mano e cercando un bicchiere che sembra brutto andare giù a canna. Ed è in quel momento che accade. Mi ritrovo circondato da tre o quattro maestre e un bidello. Tutti molto più bassi di me ma incalzanti. Una in particolare mi dice con l’occhio feroce “Scusi ma lei a che titolo è qui. Mi può mostrare un suo documento”. La sala si ferma. Mi guardano tutti. Un grosso barbone reduce da una rissa è entrato nell’asilo e si sta mangiando tutto il rinfresco della recita del natale. Stanno pensando così. Poi dal fondo della sala si sente una vocina “Quello è il mio papà, lasciatelo stare”. Orso mi corre incontro, si abbraccia alla mia gamba e comincia a dare calci in giro distribuiti tra le maestre e il bidello. Tutti si risollevano e ridono. Cerco di spiegare quel fatto che sono arrivato in moto e il freddo e nessuno mi ascolta davvero e già si sono dimenticati di me. Tutti tranne Ste che si avvicina, mi guarda e scoppia a ridere. A pasqua sono tornato all’asilo per la festa in giardino. I primi caldi mi hanno agevolato mentre me la giravo con la maglietta “Sono il papà di Orso”. Fosse stato in Trentino mi avrebbero sparato. Una vita sempre in pericolo.

Tango figurato del disdoro: Figura 4

le dieci figure di merda che ti hanno segnato nella vita


numero 4


Da solo a casa. Me ne vado al parco a far correre i cani, che sguazzano in quella putrida polenta di neve fango e sale e merda e resti umani che è il nostro suolo d’abitudine in questo inizio di glaciazione. Ormai l’asfalto o i cubetti di porfido del marciapiede sono un’ipotesi, una possibilità, una antica credenza popolare, che qui è un pezzo che si cammina in un indistinto pastone. Sotto casa mia una signora è scivolata in terra di muso e hanno chiamato l’ambulanza e dal naso le zampillava in sangue alla spina che s’è impastato al sale e al ghiaccio e sono ormai sei giorni che quella memoria di sgozzo si conserva all’ingiuria del tempo grazie al gelo e al sale in un equilibrio perfetto. L’emocromo della vecchia verrà trovato pari pari tra seimila anni, come un mammuth siberiano ma coi trigliceridi più alti. Il parco è a un passo da casa ma io ci vado col magico picàp e non per pigrizia ma per far sgranchire il mezzo, che altrimenti resta spiaggiato sotto casa in attesa dei nostri viaggi, delle nostre partenze in cui ci portiamo giusto il necessario e in quella nozione comprendiamo canoe, chitarre e amplificatori, biciclette, affettatrici, infradito e anfibi, cappelli in numero minimo di duecentosei e di tutte le fogge. Di solito ci portiamo dietro anche l’asciugacapelli che di suo non sarebbe niente ma se dico che è il mio personale la cosa acquista un’altra luce. Ma come al solito state divagando e mi portate fuori tema. Insomma eravamo rimasti che andavo al parco coi cani. Ce li porto non perché abbiano bisogno di muoversi, che è cosa nota che me li porto in giro in ogni dove, ma per fargli ritrovare i loro amici e anche qualche bel nemico che averci dei nemici è sempre un bel vivere. Infatti appena arrivati scoppia una rissa che a dire il vero non viene innescata dai miei. Un grosso cane tardo va ad annusare Jack che per completezza dell’informazione è un cagnetto nero di una decina di chili col pelo tutto arruffato e la tendenza a fare sempre come dice lui. Il cane grosso preso da raptus s’avventa su Jack che non ha paura di nulla mai e che usa una tecnica ormai raffinata nel tempo. Si chiude a palla, scatta a molla e si aggancia alla gola dell’avversario enorme senza più mollare. Stiamo parlando di una cosa impari, un botolino e un enorme pastore tedesco coglione. Nulla di sanguinario ma tanto strepito. Per cui Sciumi che è decisamente più grosso e che di solito si occupa delle cose sue senza tanti penseri, sentendo l’amico gridare parte, e Sciumi che con le persone è timido e schivo coi suoi simili problemi non se ne fa per nulla. Parte una zuffa a dieci cani, tutti i padroni urlano ma senza convinzione. Lo sappiamo tutti che non sta accadendo nulla di grave e si ride. Infatti dopo un po’ ognuno ritorna a annusare l’albero di competenza e Jack cerca disperatamente di trombarsi una cagnetta screziata. La padrona è una ragazza simpatica che mi sorride e dice “quasi quasi le faccio prendere la pillola e che si divertano”. Il chiosco è chiuso e non posso offrire il caffè ma giuro che ci ho pensato. Vabbè, stiamo lì un’ora, mi leggo il giornale e gioco con Lucio che è un enorme schnauzer, stessa razza del mio ma con cinquanta chili di più. La padrona mi racconta dell’allevamento dove hanno preso il loro schnauzerr gigante e io non mi soffermo su come uno schnauzer nano sia entrato un giorno d' inverno nel letto di mio figlio piccolissimo, decidendo che quella era casa sua e di conseguenza noi i suoi sudditi. Il mio cane ha un concetto preciso del potere. Più sei grosso e meno vali nella sua piramide feudale. Io sono il più grosso di casa. Risaliamo in macchina e siamo tutto uno schifo di neve e fango e chissà cosa. Entriamo in casa e Sciumi nella foga di bere rovescia la ciotola. Me ne vado in studio e mi metto a lavorare su un video che devo montare da un mese. Ogni giorno mi sveglio e dico “oggi devo montare quel video” e di conseguenza le sequenze giacciono in una cartella del computer in abbandono. Dopo un paio d’ore vado in cucina per farmi un panino, che è un modo lieve di raccontare come in queste circostanze mi regolo col frigo e con le cose varie, e inutili che contiene d’abitudine. Ed è allora, nel tragitto verso la cucina, che detto così sembra che abito a Versailles e invece son due passi, tre se sei stanco, mi rendo conto che abbiamo ridotto il pavimento una merda. Come uomo domestico io sono un disastro e non vi conviene pensare che ci pensi la femmina domestica, che noi si vive come ci piace ma non necessariamente come piace a voi. Sta di fatto che quando è troppo è troppo. Quando vivevo nella campagna senese un giorno ho pulito con buona lena tutti i marmi della casa, eravamo come sempre in affitto, con un anticalcare, riducendo i pavimenti a una sedimentazione di guano di gabbiani. Ora ho imparato la lezione e decido che ci vuole l’attrezzatura. Vado al supermercato solito e comincio a leggere le etichette, a soppesare spazzoloni e secchi e strofinacci. A casa ho già tutto ma decido di rinnovare l’attrezzatura di rigoverno. Compro un mocio enorme con il ricambio e un asta assurda, un secchio dedicato con rullo strizzastraccio e sgocciolatoio, cinque sei bottiglioni di qualcosa con la dicitura “non ingerire e tenere lontano dalla portata dei bambini”. Chiedo lumi alle signore che si fanno intenerire da questo omone casalingo e sono prodighe di consigli e sorrisi e mi rimbambiscono e mi caricano di prodotti e mi ritrovo anche un bombolotto di qualcosa per lucidare i mobili. Balbetto e queste mi continuano a seguire verso le casse e si sono aggiunte un paio di addette del supermarket che già mi conoscono e ridono e mi chiedono come mai. Arrivo alla cassa con passo dondolo che sembro le truppe cammellate alla conquista delle colonie. Non saprei dire esattamente qual è la dinamica ma sta di fatto che arrivato al corridoio della cassa mi intrigo con le attrezzature e i flaconi e le spugne e il secchio e cado rovinosamente a terra. Mi faccio un male cane alla spalla ma son troppo umiliato per lamentarmi e ripeto meccanicamente “non è niente, non è niente” mentre tutte le signore mi radunano le merci sparse e mi toccano le braccia e il collo e insomma mi toccano tutto, che qualcuna anche se non sono un pezzo di pregio coglie la palla al balzo per ripassare la materia. Pago e esco con le cassiere che ancora ridono e si raccomandano. Arrivo a casa e Ste è tornata. Quando mi vede e soprattutto quando vede il conto che m’ha asciugato il budget della settimana, vitto e alloggio e piccole spese compresi, lei che non si incazza mai e di solito ride stavolta non la prende benissimo. Allora le racconto la disavventura e dico che mi son fatto molto male a una spalla e a quel punto pare proprio che si stia incazzando e anche Jack va a ficcarsi sotto la credenza. Sorrido e le dico “Maddai, sto scherzando, figurati se davvero mi facevo una figura così al supermercato. Minchia ma davvero ci hai creduto. Ma lo vedi quanto sei scema”. Resta il fatto che ho comprato inconsulto un set per pulire lo stadio dopo il derby ma vabbè. Poi Ste mi dice che siamo a cena da altra gente e ci siamo presi l’impegno di fare la lasagna. Torniamo al supermercato e tutto subito non realizzo cosa sta per succedere. Appena entriamo le cassiere cominciano a trillare “Come stai? Ti fa ancora male la spalla? Ma che tenero, voleva pulire tutta la casa?”. Ste mi guarda e in quello sguardo c’è concentrata la portata distruttiva di un uragano. L’incazzatura dura fino al reparto frutta e verdura perché è lì che mi inginocchio, tra le patate e gli ananassi e le chiedo scusa con le mani giunte e il guanto di plastica trasparente ancora infilato. Per drammatizzare afferro una clementina e me la batto sulla testa con gesto pesantemente autopunitivo. La gente guarda, le cassiere ridono ma quelle ridono sempre, a volte anche quando io non ci sono. Lei non si trattiene, scoppia a ridere a sua volta e dice “Smetti di fare il cretino” che a dirlo a me investi le tue parole in bond ellenici. Ci sono uomini di casa e uomini di casino.

Tango figurato del disdoro. Figura 3

le dieci figure di merda che ti hanno segnato nella vita


numero 3


Siamo al campeggio. Tendina striminzita, mica l'igloo così in voga ora, che ci sono anche quelli che li lanci in aria in forma di pizzettoni plasticosi e sull'erba rugiadosa ricade una tenda tutta montata tre camere e cucina, riscaldamento autonomo e posto auto coperto. La nostra era ancora la cosiddetta "canadese", che vai a sapere se in Canada la chiamano così, ma che sostanzialmente consta di due paletti e un triangolo di telo a formare una cuccia instabile e poco accogliente. Di buono c'è che dormire in quel budello ti farà trovare preparato quando ti seppelliranno vivo per quei maledetti casi di morte apparente e passerai delle ore nella bara a fare i conti con l'ossigeno che viene meno. Eravamo arrivati a quel campeggio in riva al mare, parecchio a sud, senza nemmeno sapere come. Non ci interessava più di tanto. Ci spostavamo per la penisola come capitava e con mezzi di fortuna e quando un posto ci piaceva piantavamo la tenda. Non avevamo molto altro come attrezzatura da campeggio, neppure i sacchi a pelo ma era estate e si dormiva sotto le stelle in spiaggia spesso e ogni occasione minima dava il via a un tripudio inarrestabile dei sensi.
In quel campeggio c'era una numerosa famiglia che a pranzo si dedicava al cibo con mostruosa passione e ogni giorno era un combattimento all'ultima teglia. Poi i maschi adulti del branco prendevano le sdraio e si mettevano all'ombra dell'albero vicino alla nostra tenda. Noi, come ho anticipato, ci dedicavamo con quella passione che ha condizionato tutta la mia vita, impedendomi di diventare ricco e famoso perchè, troppo spesso vinto dal viluppo sfrenato delle lenzuola, non sono riuscito a cogliere le occasioni migliori a livello professionale e commerciale. Ma non ho nulla da rimpiangere e morirò felice. Sta di fatto che questi qui si piazzavano a ridosso del nostro nido d'amore e dopo un poco si alzavano sbuffando e dicendo cose tipo "stann affà semp chest" nel caso più blando. Le donne ridacchiavano ma i maschi questa cosa del tramestio carnale che giungeva dalla canadese nostra non lo reggevano proprio. Noi ne ridevamo. Vorrei che si apprezzasse lo sforzo che sto facendo per raccontare questo episodio senza diventare bassamente volgare. Non sono certo di arrivare in fondo in piena salute perchè lo sforzo è degno dei campioni di apnea.
Una mattina mi sveglio e vado al bar e compro mezzo litro di latte e i Ringo. Nel tentativo di imbastire una magica colazione d'amore sull'erba zellosa davanti alla tenda, la mia amica strappa il cartone del latte coi denti e ci rimette l'angolo di un incisivo. Nulla che pregiudichi la sua bellezza ma un incidente che genera un certo scompiglio accompagnato da invocazioni a santi che testimoniano della nostra buona fede. Alla fine la prendiamo a ridere e ce ne andiamo in spiaggia. Il pomeriggio, nella frescura degli alberi che agevola il rilassamento postprandiale, ci ritroviamo a rinnovare il patto di carne e amore che ci lega in quella torrida stagione canaglia (sono mica sicuro di poter continuare così) e lasciamo che la nostra passione corra tra le curve dei nostri corpi fino a rischiare un azzardo in testacoda (se non capite poi vi faccio i disegni). In quella golosa voluttà a un tratto provo una sensazione strana, qualcosa di simile a un'affettatrice Berkel intenta a ricavare fettine sottilissime da un pezzo di lardo di Colonnata. ZIIING. Restiamo sospesi nel gesto, una sorta di unduetrestella erotico. Poi lei dice "Cazzo" ed è effettivamente estremamente pertinente. Lo spigolo spezzato dell'incisivo, come affilatissima selce neolitica (sento che non reggo oltre con l'approccio scientifico divulgativo) ha reciso il frenulo con un taglio chirurgico e spietato. La zona, non ciedetemi di entrare nello specifico dei corpi cavernosi e affini, è fortemente irrorata e comunque io son laureato in materia umanistica e vorrei essere sollevato da ulteriore approfondimento, limitandomi a dire che nel giro di poco devo constatare che l'effetto è quello di una coltellata ben assestata all'addome. E parlo proprio dall'effetto filmico splatter in cui riesco a produrmi nella nostra bella intimità da campeggio. Esco dalla tenda e corro verso i bagni cercando di arrestare quella tremenda emorragia e già mi vedo morto dissanguato davanti alla roulotte dei panzoni che potranno così cogliere la loro bella rivincita. Raggiungo i bagni alla fine, che devo provare a metterlo sotto l'acqua fredda. Così mi continuo a ripetere. Corro con una mano ficcata nel costume che mi sono reinfilato al contrario. Corro come una gazzella ferita che va a morire da sola in un angolo della savanoa. Corro come il peggiore dei cretini al campeggio d'estate, balzando fuori da una canadese. Per inciso (mi pesa dire per inciso pensando al mio povero frenulo ma lo faccio per maggior chiarezza del pubblico da casa) nella repentina mossa verso i bagni tiro giù il paletto e lascio lei sotto le macerie della nostra magra attrezzatura da campeggio. Arrivo al lavabo e lo sapete come sono posizionati quegli affari lì nei campeggi. Lunghe teorie di sanitari per consentire bella comunanza ai campeggiatori che si lavano uno di fianco all'altro. Non me ne fotte niente, è nella mia natura, di quelli che possono arrivare. Il bagno è vuoto e io faccio partire l'acqua a palla e cerco di lenire la tragica ferita. Presto il lavandino diventa un set di un B movie splatter davvero agghiacciante. E poi entra lui. Non lo sento arrivare, son tutto preso a guardare i miei attrezzi d'amore con giustificata preoccupazione. E quello mi balza alle spalle e mi cinge con le braccia a cintura, come in una mossa di lotta e mi grida "Che cazzo fai... fermati... fermati...". Io ci metto quei secondi che ci metterebbe chiunque a decidere di mollare la presa dal coso e cercare di reagire. Ci metto quell' esitazione che ti prende quando pensi "ora lo lascio e cade a terra e addio vita". Però alla fine reagisco e non sono proprio un osso facile da rosicchiare e vado indietro contro il muro e di peso e lo scamazzo sulla parete e mi giro entrandogli con un gomito sul petto. Siamo faccia a faccia "Che cazzo vuoi" ringhio con una mano mia sulla sua gola e non smetto di pensare che sto gocciolando sui miei e sui suoi piedi. "Stai calmo..." dice lui che ha la faccia di uno a posto "Stai calmo..." continua a ripetere. "Mi sono fatto male" dico io "Cerco di fermare il sangue" "Cazzo... mi hai fatto prendere un colpo... Pensavo stessi facendo un qualche gesto folle". Sbarro gli occhi. Scoppio a ridere e quello ride con me dopo un po'. Pensava forse che mi stessi suicidando strangolandomi il prepuzio nel lavandino del campeggio. Gli chiedo scusa, mi risistemo alla meglio e la sera al bar del campeggio lo ritrovo con la sua ragazza e offro una birra. Non ci siamo mai davvero chiariti come era andata. Spero mi legga ora e abbia un quadro completo della situazione. Da allora ho perso significativamente ogni frenulo inibitore.

mercoledì 17 settembre 2014

Tango figurato del disdoro. Figura 2

Le dieci figure di merda che mi hanno segnato nella vita
 

Figura 2


In fondo a Viale Volontari della Libertà, che sono cosa ben diversa da quelli che anelano alla Libertà ma perché obbligati, dietro l'albergo "Ramandolo" per capirci, c'è un parco pubblico. Oddio parco è parola grossa, in realtà è un fazzoletto di terra stitica che non è mai riuscito a attirare nessun tipo di utenza. Eppure chi lo ha progettato negli anni Ottanta s'era immaginato che quello spazio chiuso tra i palazzi e qualche casetta bifamiliare con l’omino che pota la siepe al sabato, potesse avere un’ utenza varia e anagraficamente trasversale. Nel suo piccolo c’è una pista di pattinaggio che s’è guadagnata nell’erba una sua rispettabilità fatta di un cemento rosso che segue il tracciato di un immaginario circuito progettato da un geometra del comune che la mattina aveva fatto colazione con le acciughe al verde e una punta di LSD. La pista è percorribile solo se si è muniti di pattini in linea e di una sola gamba, perché è strettissima e l’unica curva è un tornante che ti rispedisce a boomerang e con velocità decuplicata dall’effetto, noto in fisica come frombola della morte, alla casella di partenza. Ho visto bambini con il triciclo schiantarsi con incidenti spettacolari che al confronto Indianapolis sembra il brucomela.
Ancora nel suo piccolo, ci sono le panchine, una paio, messe proprio con le spalle alla siepe fitta che delimita il parco. Il progettista, in un delirio di visione ergonomica, aveva probabilmente pensato ad agevolare i manigoldi che potevano arrivare indisturbati alle spalle degli anziani per derubarli dopo avergli tagliato la gola o fracassato la testa con una mazzuola da muratore. Non ricordo bene, pur essendo l’unico fruitore attivo di questo spazio da sempre, ma originariamente c’era anche una rastrelliera di mazzuole da muratore a disposizione di chi frequentava il parco ma, come sempre, ci sono quelli che non hanno il senso del bene comune e dai oggi dai domani alla fine alcuni servizi sono spariti.
Ancora nel suo piccolo c’è una terza panchina che originariamente era sotto un alberello e che ora è stata inglobata da una sorta di pianta carnivora che si nutre dei barboni ubriachi che la notte riescono a trascinarsi fino a lì. I poveretti fuggono quella maledetta morsa all’anima che gli procura il vivere in una città come Udine, dove tutti ti offrono continuamente da bere e a barbonizzarsi, finendo per dormire abbracciati al cartone del Tavernello, ci si mette un lampo e una leggera disattenzione. Arrivano lì barcollando, giuro che la panchina in questione emette la notte una balugine nel buio tipo il riflesso di una bottiglia di verduzzo, attratti da quella bella possibilità di poter riposare il corpo lasso lasciando che il fegato si lavori in pace l’eccesso. Si sdraiano e in una frazione di secondo spariscono, ingoiati dalla perfida simbiosi tra pianta e panchina.
Ancora nel suo piccolo, il parco riserva altre sorprese. Per evitare la manutenzione di eventuali altalene e scivoli si è pensato di istallare dei giochi per l’infanzia che dessero belle garanzie di affidabilità nel tempo. Al centro dello spazio erboso è stata raccolta con la pala meccanica una bella quantità di terra, per farvi un’idea andate a guardarvi “La collina del disonore” che è una vecchia pellicola che però mantiene intatto il suo fascino. L’altura generata da questo dissesto geologico nasconde la vera magica sorpresa. Nel cuore della collina c’è una tubatura in cemento, pari pari a quelle usate per le cloache, che probabilmente nelle intenzioni del geometra del comune serviva ad abituare i piccoli friulani alle tragedie di miniera che pure li avrebbero attesi se si fossero decisi come tanti ad emigrare in Belgio. Un cunicolone che attiva nei piccini la sindrome di Vermicino e non offre neppure riparo ai barboni e se ora mi chiedete perché vuol dire che prima non avete letto con attenzione. Attorno ci sono degli altri alberelli che sono stati piantati da decenni ma hanno scelto la via del bonsai e restano piccini come quelli del presepe.
Il pezzo migliore però, sempre nel suo piccolo, è l’anfiteatro greco, non sto scherzando, ricavato nell’angolo estremo del parco. Gradoni in cemento e una scena che nell’idea del geometra del comune avrebbe dovuto accogliere con bella cornice drammi e commedie normalmente consumate dentro le mura domestiche. A volte ci vanno i ragazzi a farsi le canne su quei gradoni e scrivono “coso ama cosa” “cosa ciuccia coso” “coso gli piacciono i cosi” e altre frasi dove coso e cosa sono sempre protagonistissimi.
Lo conosco bene quel parco perché vivevo in uno dei palazzoni lì attorno e ci andavo a preparare gli esami seduto sulla panchina degli anziani quando non era sporca di sangue fresco o sdraiato sulla panchina dei barboni perché mi ero accordato con la pianta carnivora e gli procuravo delle variazioni alla dieta invitando gente di tanto in tanto. Ci andavo in bicicletta e con il cane e mi mettevo lì, a volte sdraiato su una delle tre linee di gradoni che nel suo piccolo componevano l’anfiteatro. Passavo dei pomeriggi bellissimi e mai nessuno a rompermi i coglioni. La gente passava a bordo parco ma nessuno osava metterci piede e io ero il signore di quel mezzo campo da pallone regalato alla fantasia dei cittadini. Gridavo nel condotto sotto la collina e i topi facevano l’eco per darmi soddisfazione, pisciavo contro gli alberelli bonsai per aiutarli nel loro tentativo di scomparire, lasciavo briciole per certi passeri mutanti che parlavano in serbo e sapevano essere crudeli.
Un giorno di fine estate stavo lì sdraiato sulla panchina. Mi ero tolto le scarpe di tela e mi ero portato le birre ghiacciate e un libro strampalato in spagnolo perché all’epoca preparavo esami di arte mesoamericana. Il cane stava sdraiato sotto la panchina e teneva lontani i passeri mutanti dalle lattine di birra. Il cielo non prometteva niente di buono e io guardavo quel denso grigiore senza troppa pena perché lì, a pochi metri, avevo parcheggiato la mia 127 verde coi fari supplementari gialli e la scritta a bomboletta “The Clash” sul cofano. Praticamente all’epoca vivevo dentro quella macchina. A un certo punto sento delle voci femminili. Giro la testa e sono due carine che in omaggio all’estate che fugge regalano alla vista belle porzioni di corpo. Fingo di fottermene, che secondo me è una strategia ma non mi ha mai portato molto lontano. Sono sedute di fronte a me, nella panchina del pensionato sgozzato e pare proprio stiano berciando rivolte da questa parte. Le guardo di nuovo. Stanno chiamando il cane. Con il cane al parco dice che si rimorchia ma io ho rimorchiato spesso risse con altri proprietari di cani, i vigili e signore logorroiche alla ricerca di attenzione. Queste invece sono carine e quel vecchio arnese di Blu s’è alzato e è andato a vedere cosa vogliono. Cerca cibo, cerca sempre cibo per dare ragione all' antica memoria di lager da cui l’ho strappato a suo tempo. Loro non lo sanno e dicono che carino e a dirlo di quel cane lì pieno di cicatrici e col pelo struffo c’è da essere matti. Ma io lo so che su quelle lì fa effetto quest’aura di libertà che il cane e il mio stare sdraiato sulla panchina a piedi nudi e il libro e quell’atmosfera da parco maledetto sanno evocare. Uso un vecchio trucco. Fischio e il cane torna verso di me e dico anche “Scusate”. Praticamente un cane da riporto. Puntuali loro mi rispondono “Ma no, siamo noi che lo abbiamo fatto venire qui, che bello come si chiama” “Blu” “Come?” “Si chiama Blu” “Ma è bellissimo, perché si chiama così?” “Perché è blu, se lo guardi da vicino lo vedi che è blu” “Maddai” “Allora vieni a vedere”. Tutto questo sempre restando sdraiato. La più carina e intraprendente si alza ridendo e si avvicina. Si siede sull’erba a gambe incrociate, proprio sulle briciole dei passeri mutanti e vorrei dirglielo che rischia la vita ma ho paura di rovinare tutto. Il cane le si avvicina e lei infila le mani nel pelo nero nero e spettinato e ride. “Davvero è blu, incredibile”. La guardo con gli occhi socchiusi “Incredibile” dico a mezza voce. Resta sospesa e non capisce. “Blu non si lascia toccare da nessuno, solo io posso accarezzarlo. Non lo avevo mai visto fare così. Si vede che gli piaci. Devi essere una davvero speciale e io mi fido di Blu”. Non mi guarda ma sorride e accarezza il cane e sembra proprio che stia parlando come un santo al lupo. Blu mi regge il gioco come sempre ma mi guarda come a dirmi “potresti risparmiarti tutte le volte questa cosa pietosa del cane intoccabile”. “Cosa stai leggendo” chiede lei “Arte mesoamericana” dico io, con la voce tre ottave sotto. Ora ho davanti a me un’autostrada di surrealtà da percorrere a togliermi il fiato. Restiamo lì a parlare, lei vorrebbe fare i fumetti o non mi ricordo più e io sono a metà tra un bluesman al crocicchio e un esploratore che sta per partire per Cuzco. L’amica si avvicina ma ormai il palleggio è a due. Il cane si rilassa e si sdraia. Sulle sue gambe incrociate. Vecchio Blu quanto mi manchi anche se ti porto in quella specie di nome che nel tempo è diventato marchio di fabbrica. Di colpo scoppia a piovere. Fortissimo tutt’insieme. Mi alzo e dico “Scusami ma devo correre alla macchina altrimenti mi si bagna il libro: Se volete vi posso dare un passaggio” “No grazie, la mia amica abita lì di fronte” “Allora ci si rivede, io vengo a leggere qui tutti i pomeriggi” “Che bello allora, portiamo i panini la prossima volta. Anche per Blu”. L’amica è un po’ infastidita e fa la fiscale “Ma non gli metti il guinzaglio?” “No, il mio cane è un po’ di tempo che si chiama Libero” e mentre lo dico mi faccio schifo da solo. “Ciao allora” dico di rincalzo e attacco a correre verso la macchina a piedi scalzi nell’erba sfregna. Mi giro per chiamare il cane che mi corre dietro, come a dar sfoggio di complicità con quella bestia selvatica. Sembriamo la pubblicità del Vidal per il mercato bulgaro. Poi tutto accade in un lampo. A bordo parco la mattina si sono messi a fare dei lavori per le tubature. Hanno scavato e recintato alla meglio. Ma io salto la siepe come un capriolo in calore e precipito nella voragine rovinosamente. Senza un grido. Un male pazzesco. Mi tengo la caviglia, ho i pantaloni strappati e perdo sangue dai gomiti, dalle ginocchia e dalla dignità. Il cane resta sul bordo della fossa e abbaia come ha visto fare in televisione ai suoi colleghi del soccorso alpino dopo le valanghe. Se la tira alle mie spalle per quel panino promesso. Quelle accorrono preoccupate per avermi visto sparire dopo il balzo della siepe. “Ti sei fatto male”. Se c’è una cosa a cui è difficile rispondere senza spargere terrore e devastazione intorno in queste situazioni è “Ti sei fatto male”. Invece quasi fingo distanza e indifferenza. Cerco di sottintendere che fa parte del mio allenamento alla Mesoamerica. Esco dalla fossa tutto sporco e strappato e ormai la pioggia battente è una benedizione che purifica. “Vabbè vado” “Oddio, il libro si è tutto rovinato” “Tanto era della biblioteca” “Vabbè, sicuro che stai bene” “Tranquille, ora devo davvero andare. Alla prossima”. Nessuna risposta ma forse la pioggia ha coperto le loro parole. Il cane è già entrato in macchina saltando dal finestrino lasciato aperto.

Tango figurato del disdoro. Figura 1.

le dieci figure di merda che mi hanno segnato nella vita.

Figura 1


Aspetto tutti i giorni all'uscita del liceo, lì sulla scalinata. Faccio finta di parlare con gli altri ma in realtà aspetto lei. Un giorno riesco ad accompagnarla alla fermata del bus. tanto facciamo la stessa strada. ometto di dire che in realtà io sono in motorino e lo lascio lì dandogli un'occhiata complice. si tratta del solito ferro razza Ciao che se mi leggete avete imparato a conoscere. ho gli anfibi, i pantaloni neri di fustagno strettissimi, una catena che penzola dai pantaloni e un giaccone grosso e rosso che è inverno e fa freddo e il chiodo non regge (praticamente sono vestito come adesso ma all'epoca avevo trenta chili di meno addosso). ho circa quindici anni. parlo e parlo che quando mi intimidisco parlo ancora di più e mi ammazzerei come un moscone da solo. vorrei lei mi sorridesse (in realtà ben altre sono le mie aspettative ma devo scrivere così per la sensibilità del pubblico da casa). forse le parlo di musica, forse le parlo del sogno di viaggiare, probabilmente parlo di antinucleare che lei è fissata e frequenta un gruppo di quelli che fanno i campeggi nelle centrali nucleari per protesta e sono un po' della parrocchia un po' no. è evidente che parlo di fine settanta inizio ottanta. infatti i miei ricordi sono su pellicola e spesso negativi. non ci capisco un cazzo di antinucleare ma quasi mai parlo di cose con consapevolezza e competenza. mentre deliro di scorie e nubi tossiche scivolo su una cazzo di ghiaietta e mi inciampo nel gradino della discesetta di un garage. in pieno centro. ho le mani ficcate nelle tasche strettissime dei pantaloni strettissimi e sento una stretta al cuore strettissima mentre percepisco in mio corpo cadere al suolo come un pioppo giovane destinato alla cartiera (dai che questa similitudine omerica ti ha lasciato di stucco). le cado lungo davanti, come la sbarra del passaggio a livello (va bene, la smetto con le similitudini). lei resta interdetta. io mi dimeno nel tentativo di liberare le mani dalle tasche e sembro una grossa larva agghiacciante. mi sto rotolando nella polvere e scricchiolo nella fottuta ghiaietta. rido, madonna come rido e la risata mi toglie il fiato e le forze e alla fine mi abbandono, lascio che la testa s'appoggi al selciato e rido, sempre con le mani ficcate tra l'inguine e il fustagno. voglio morire. a questo punto non ha più senso alzarsi. lasciatemi qui come una cosa abbandonata in un angolo e dimenticata, diceva il poeta. io riesco solo a ridere con le lacrime agli occhi e questa qui che mi guarda e la gente che pensa "il solito drogato" che in quegli anni era di moda drogarsi e immaginare tutte le persone che rantolavano a terra dei drogati. lei alla fine si allontana. non dice una parola. resta a guardarmi a tre metri di distanza. la giusta distanza per non essere accomunata. arrestata eventualmente. alla fine riesco a rialzarmi.
il pomeriggio mia madre viene a chiedermi perchè continuo a ridere nella mia stanza come un cretino. me lo chiede ma le leggo negli occhi che sospetta mi sia drogato. lei l'ho rivista da poco e non ci salutiamo nemmeno. ha dei figli e un marito perfetto e la sua vita è rimasta contaminata dal tempo, che è peggio di qualsiasi scoria nucleare. io mi sono montato un contatore geiger sulle emozioni. per la bellezza dell'anima. ma non funziona.

giovedì 10 luglio 2014

RIDUZIONE IN SCALA









“Prego vada prima lei che scende prima” “a che piano?” “vada, vada che ho la spesa…”. Vivo in un vecchio palazzo sbrecciato e l’ascensore originariamente non c’era. Poi i condomini, sulle tracce di questo maledetto destino della città industriale che muore, hanno cominciato a sentire il peso di quei gradini annunciati da una guida rossa che nel tempo è diventato un villaggio vacanze per gli acari che lavorano in campagna. E allora hanno fatto mettere quest’ascensore in un palazzo che originariamente forse non sospettava nemmeno esistessero aggeggi meccanici di quella fatta. S’è ricavato un colon architettonico tra la tromba delle scale e l’antico scivolo del pattume, un esofago che rigurgita povere persone inacidite in un reflusso antropologico che è tutto quello che possiamo raccontarci dell’oggi. Così adesso abbiamo l’ascensore, che come non bastasse la possibilità ridotta del budello, è stato costruito con le porte che si aprono verso l’interno, scatenando pressioni e strusciamenti che, considerato l’andamento demografico dei condomini, sembrano più prova di fossa comune che guizzi d’erotismo spicciolo. I vicini li ritrovi pressati a filo d'alito e piomba quell’imbarazzo che è tipico di quel momento lì dello scendere e del salire e dell’averci finalmente anche tu un piano nella tua vita. “Che piano?” chiedono gli altri che ti conoscono e già lo sanno ma lì dentro non puoi guardare il cielo dicendo che forse pioverà o cazzate così e allora te la giochi come puoi. “Che piano?” sussurra quella del terzo che è rimasta signorina e quella promiscuità la agita. “Che piano?” chiede quello che è arrivato da qualche mese e avrà la mia età e misura una fottuta solitudine con il rumore delle bottiglie di vetro che lascia cadere la notte, con cadenza ordinata da uno spartito che gli balla in testa, nel contenitore della differenziata. Cammina a filo di muro e sussurra qualcosa che non saprò. “Che piano?” quello del quarto che alla fine siamo diventati amici e si parla rimanendo appoggiati ai cofani delle auto e si scherza e poi ognuno a casa sua e non ne conosco il nome. “Che piano?” chiede quella che aveva scritto una lettera all’amministratore perché i miei cani anche se non li senti mai potrebbero portare malattie e quando mi chiede “che piano?” rispondo sempre “di distruzione di massa”. Invece a quell’altra che faceva la modella e la notte telefonava a uno e gridava e piangeva e aveva sempre un trolley da trascinare e forse non era proprio modella e aveva gli occhiali scuri e neri a coprire il velo di bonza posato sui pensieri le ho detto una volta “a coda” in risposta alla fatidica domanda ma quella non m’ha  curato per niente e già preparava le lacrime per la telefonata che aveva in punta di dita.”Che piano?” mi domando da solo, che mica mi ricordo.
Ficcato in quella polpa d’umanità sospesa ho letto la portata e i numeri d'emergenza milioni di volte con la faccia del "ma guarda tu" mentre mi studiavo gli altri di traverso, in un annusarsi reciproco. E quelli del piano di sotto che non salutano e guardano a terra e tu pensi che è colpa del letto che sussulta spesso la notte e devi deciderti a operare delle modifiche silenzianti. Per averne in cambio un sorriso. Illusioni in millesimi.

mercoledì 2 luglio 2014

Quando vedo non sto mai guardando






 




Sei venuta a cercarmi. Di notte sei venuta a cercarmi e m’hai trovato nel buio seguendo il rumore della pietra che affila. Avevo ripetuto, tutte le volte che non serviva ricordarlo, che ti avrei aspettato per sempre e poi sei venuta a cercarmi tu. Dovrei vergognarmi già solo per questo ma la vergogna l'ho data in saldo la prima volta che mi sono sognato addosso. Hai seguito le tracce che lasciano le mie suole sempre sporche di fango anche se giro da anni sospeso sulle moquette di questo tempo mediocre che mi resta. Sei arrivata alle mie spalle per non dovermi costringere all’imbarazzo di non averti visto di nuovo arrivare. Quando vedo non sto mai guardando. Sei venuta a cercarmi in punta di rabbia e in accesso di passione, roba che si controlla male e che quindi posso misurarmi addosso con bella disinvoltura. E io che ti dicevo t’aspetto mi sono distratto al primo incidente mortale all’incrocio e poi sono andato con una piega dentro che avrebbe dovuto ricordarmi qualcosa ma non ricordavo cosa. Sei venuta a cercarmi seguendo l’odore dei cani come solo i cani sanno seguirlo. Quando mi hai trovato non c’ero già più da un pezzo e mica perché scappo, piuttosto perché mi dimentico di esserci sempre. Dice che è la mia benedetta maledizione. Sei venuta a cercarmi e a svelare il tuo inganno c'era la borsa delle possibilità caricata di ricordi. Non funziona mica così.




martedì 1 luglio 2014

fila la lama, fila i tuoi giorni

















sto bevendo il caffè al bar sotto casa. piove di un'acqua che non si aspetta, altro che benedetta. sotto il tavolo i cani mi guardano con quello sguardo di rimprovero che hanno sempre quando piove. ho la certezza che mi ritengano responsabile dei temporali e dell'erba bagnata e dei tuoni, soprattutto sciumi ogni volta che c'è un tuono fa un salto e poi mi guarda come per dire "vediamo di piantarla". sto leggendo il giornale e mangio a piccoli morsi una ciambella ricoperta di una glassa rosa che è già presagio di avvelenamento. "ora tutti voi giovani ci avete la moda di farvi il carone, la capa rasata a zero come a militare" è un vecchio sbudellato che sta seduto davanti a me e che evidentemente, visto che sono l'unico non impegnato con le macchinette mangiasoldi, mi sta parlando. il fatto che abbia detto "voi giovani" mi lascia incerto ma alzo la testa dal giornale e lo guardo. sorride. sta parlando proprio con me. "i capelli quando ero giovane io erano importanti perchè alle donne ci piaceva a vederti pettinato colla brillantina come quelli del cinema e andavi a ballare e più eri pettinato più... ci siamo capiti. poi questa cosa dei capelli era pure una sicurezza". si studia la pausa. "all'epoca tutti avevamo dei fastidi con le guardie in questa zona, eravamo dei monelli" dice proprio così "e mica potevi andare in giro con la lama in tasca tanto tranquillo che se ti conoscevano finiva sempre che ti fermavano e ti guardavano nella giacchetta e magari si tenevano due spiccioli. allora non potevi girare con un coltello e il cannone lo tenevi nascosto per quando poteva servire sul serio ma se andavi in giro per strada mica tutti erano amici che quando uno ride qualcun'altro sempre piange. insomma ci eravamo imparati a tenere un pettine d'osso in tasca, era una cosa che forse si erano imparati quando si facevano l'albergo, e tu il pettine te lo facevi lavorare di fino colla mola e lo affilavi proprio sulla schiena d'osso e devi vedere come tagliava. con niente ci facevi la faccia a uno". questa storia del pettine già la conosco ma lui pare ci tenga proprio a lasciare la sua memoria appoggiata lì, tra il giornale e le briciole della ciambella rosa. "hai capito che i capelli sono una cosa comoda che se non li hai come cazzo te ne vai in giro con un pettine in tasca? vabbè, tu hai i cani e già stai abbastanza tranquillo ma uno col pettine giusto se ne frega dei cani tuoi?". sorrido. forse potranno affettarmi con mille arnesi ma se tirano fuori un qualcosa in osso giuraci che per i cani è un lampo ridurlo in briciole. osso è la parola magica. mi rimetto a leggere il giornale.



venerdì 27 giugno 2014

Esami del sangue













gli esami di terza media sono andati. di imbarazzi della didattica qui se ne parla e son cose che passano dal mio mestiere ma a scuola da mio figlio sono andato sempre ad ascoltare e basta. non mi interessano i voti, i numeri sulla pelle che uccidono l'ipotesi minima di poter dichiarare che s'è fatto tutti insieme qualcosa. già dalle elementari mi son fatto carico di un'altro percorso fatto di curiosità e passione e soprattutto rispetto per la lealtà. ho insegnato la parte mia a mio figlio nei boschi, in mezzo al mare, seduti sul divano guardando film e mangiando schifezze, cercando di inseguire la maledetta felicità sempre. non gli ho insegnato trucchi e stratagemmi e infingimenti per ingannare noi e basta. non gli ho chiesto di far finta davanti all'evidenza delle cose. gli ho chiesto di prendere posizione, di saper confrontare i suoi passi con i passi diversi e di fuggire i luoghi comuni e l'intolleranza preconfezionata da saltare in padella nel tinello di famiglie finte da pubblicità. mio figlio sarà di certo promosso e di cose a scuola ne ha imparate ma non è questo che conta, conta piuttosto che ha imparato il gusto della passione e dell'andare, questo conta davvero. conta che ha imparato che questa nostra scarsa propensione al denaro e alla ricchezza e al lusso è la possibilità che diamo ai nostri occhi di vedere in giro per il mondo senza averci vincoli enormi a gravare sul nostro quotidiano e a anabolizzare la nostra smania di potere. liberi. e voglio dirlo oggi che orso dovremmo pesarlo con un numero, uno qualsiasi. chiedetevi se i vostri figli sono felici ma soprattutto chiedete conto alla vostra di felicità e forse del numero in questione ve ne batterete i coglioni. non ne ho mai parlato prima ma oggi mio figlio ha fatto il suo orale ed è andato bene ma nessuno è riuscito a sospettarlo che dietro quelle sue parole c'erano contenuti veri che ci eravamo costruiti cercando nei libri e negli archivi, senza copincollare da qualche sito, e rimanendo di notte seduti in mezzo a una montagna e dentro una vecchia fotificazione della prima guerra mondiale perchè è così che si capisce la storia. nessuno l'ha sospettato ma in ogni caso noi siamo felici e non parlo della fine degli esami. non è stata una cosa facile in questi anni, che nulla ci arriva in regalo e tocca stare ficcati nelle cose, ma noi non abbiamo inganni da nascondere tra noi e questo conta più di tutto. hai imparato a parlare con i cani e a venire in canoa con me in mezzo all'azzurro. non lo sospettano l'azzurro quelli lì. grazie orso.





mercoledì 25 giugno 2014

Border line








Sono cresciuto in un posto dove c'era un pezzo di terra zellosa dietro i palazzi e ci andavamo a giocare a pallone o a sdraiarci nell'erba a fumare le prime sigarette ciancicate o a parlare di quell'amore che non sapevamo, ispirati dai resti secchi delle copule notturne di quelli più grandi che andavano lì la notte. Lo chiamavamo Milanino quel lembo di sassi e erba stinta, senza saperne il motivo. Sono cresciuto in un posto dove in fondo al Milanino c'era la casetta del casellante di un qualche binario morto, che lì ci arrivavano tracce della modernità solo quando già erano da seppellire e una mattina tutta quella famiglia l'hanno trovata ammazzata a fendenti di lama larga e noi, che eravamo in vita per violare tutto, lì dentro non ci siamo mai entrati. Sono cresciuto in un posto dove gli zingari si chamavano Elvis e Tarzan e erano quelli più signori che avevano le auto americane e le moto e a Dumbo gli avevano lasciato in uso un Suzuki 750 e noi ci giravamo in tre per fare la somma dell'età e averci gli anni giusti per una patente. Sono cresciuto in un posto dove era impossibile giocare a guardia e ladri perchè nessuno voleva fare una delle due categorie e non sto parlando dei ladri, che lì il furto era considerato una proprietà. Sono cresciuto in un posto dove quello che vendeva gli alimentari stava dentro una specie di garage e dovevi saperlo che era lì e noi si andava a prendere la bottiglia di aranciata e mentre uno pagava gli altri si imboscavano i Ringo e i Kinder e voglio farti presente che c'era una strategia perchè l'aranciata era troppo voluminosa e costava meno di tutto. Sono cresciuto in un posto dove bevevamo quell'aranciata artificiale degli anni settanta e dicevamo che ci spariva il raffreddore per via delle vitamine. Sono cresciuto in un posto dove si giocava a basket per dodici ore di seguito e a giugno erano quasi tutti bocciati. Sono cresciuto in un posto che era proprio al limite della città e era comodo giusto quando venivi dall'autostrada che pagavi al casello e eri subito a casa. Sono cresciuto in un posto dove noi tornavamo raramente da un viaggio in autostrada. Sono cresciuto in un posto che quando sono tornato dopo anni con il mio Ciao riverniciato rosso, l'ho parcheggiato e sono andato a trovare i miei e quando sono sceso non c'era più. Sono cresciuto in un posto che il Ciao l'ho ritrovato sotto casa la sera con un biglietto con scritto "scusa" e mica lo sapevano che avevo cambiato colore al motorino mio. Sono cresciuto in un posto che ancora oggi ci proteggiamo uno con l'altro anche a distanza di centinaia di chilometri. Sono cresciuto in un posto che c'era la fabbrica della birra e nemmeno te lo immagini che puzza fanno il malto e il luppolo l'estate. Sono cresciuto in un posto che si era tutti ska e punk e dark e cose così e avevamo i vestiti strani e la musica a palla e gli anfibi e i cappottoni neri. Sono cresciuto in un posto che abbiamo ancora gli anfibi e la musica che ci corre dentro. Sono cresciuto in un posto che l'autobus numero 4 era il nostro Pequod. Sono cresciuto in un posto che poi sono andato a vivere in mille altre città e mi muovevo sempre come fossi sceso in strada in quel posto. Sono cresciuto in un posto che l'ho capito che bisogna godersela finchè si può, è l'unica cosa che vale. Sono cresciuto in un posto che lo posso anche raccontare e poi dimmi se non è un colpo di culo.

giovedì 19 giugno 2014

Dice che te lo posso imparare io






un altro invito a partecipare a un corso di scrittura. dice che sarei perfettissimo per spiegare alla gente come si scrive. Lo dicono questi qui che sono delle persone che ne sanno di scrittura anche se non scrivono mai un cazzo di niente e se lo fanno c'è da cadere in tragici imbarazzi, presi come sono dall'idea che scrivere bene sia mettere la punteggiatura giusta e digitare con bella maestria maiuscole a inizio paragrafo. l'altro giorno mi è arrivato un ennesimo invito, a me che ho la socialità di un orso post letargico, per una serata in cui ognuno legge i suoi racconti e poi si parla di letteratura. una sorta di gruppo di autoaiuto degno dei fotogrammi iniziali di fightclub. cosa vuol dire che poi si parlerà di letteratura. come si inizia? quali sono i preliminari? si parte con un leggero petting letterario sventolandosi pagine reciprocamente per scacciare il caldo e stuzzicare il desiderio di parole e racconti? e poi perchè ci dobbiamo sentire i racconti degli altri aspettando di leggere il nostro. è ovvio che diremo bravi a tutti atterriti dalla possibilità che se gli diciamo a uno che scrive delle ovvietà, delle cazzate con uno stile tremendo in punta di "stormir di fronde" e "egli" e "nascondeva un dolce segreto" poi quelli si rifaranno su di noi e non c'è peggio di qualcuno che ti dica che scrivi cazzate se sei in un consesso di parascrittori. che due palle. torino poi è piena di orfani del tritacarne holden che girano come zombie di carta e si nutrono di refusi. ma dice che ci starei bene a tenere un corso di scrittura perchè ho l'approccio giusto,. me lo dicono guardandomi al bar davanti alla solita birra, mica leggendo la pochezza che riesco a lasciare su una pagina. a loro basta come bilancio con grazia letteraria il bicchiere in punta di labbra che lì son maestro indiscusso e ho i segni addosso e mi muovo come un cane scassato dai calci e gli piaccio perchè loro ne sanno di scrittura e una volta uno mi ha anche detto "si vede che tu hai fatto il classico". te lo vorrei far vedere come l'ho fatto io il classico, che sono una sorta di discarica vivente degli aoristi andati a male, delle scorie di una metrica che non saprò mai scandire compiutamente. ma certo che ci vengo ai corsi tuoi di scrittura però devi appoggiare la grana sul tavolo e avrai 'sto spettacolo d'uomo da spendere per aver misura di come ci si possa ridurre a scrivere cose che non son buone per la scrittura.




martedì 6 maggio 2014

Hula Hopper






Ieri notte sono finito nelle rovine del tempio del panino global. Dalle parti di Cremona. Non entravo in un fast food da anni e anni perchè ho difficoltà a coniugare il piacere con la sveltezza. Ma ieri notte dopo ore di viaggio ci siamo ritrovati in mezzo alla pianura padana e c'erano 'ste luci accese. Le uniche luci accese in quella botta di buio denso e, se ci pensi che dove guardi guardi non vedi montagne e non sospetti il mare, capisci che sei nel cuore nero del nulla e ti viene una fottutta paura dell'ignoto. Abbiamo parcheggiato, chiedendo ai cani di dare un occhio ai bagagli, che nel caso dei nostri cani è come chiedere a un vegano di finirti il kebab. Tanto è tutta la vita che possiamo fare a meno di quello che potrebbero rubarci e forse per questo non ci rubano mai niente. Il viaggio è stato un deliro. Sono riuscito anche a parcheggiare a Venezia, proprio Venezia, senza entrare nei silos. non m'era mai riuscito da sempre e nella laguna ci sarò andato qualche milione di volte. Insomma entriamo in 'sto posto che se vuoi puoi anche farti portare la roba al finestrino ma se tu fai entrare tre vassoi di merda fritta e cocacola a secchi nella nostra auto pigiata di bagagli e cani e tartarughe e noi, rischi di scatenare un casino pazzesco e quindi abbiamo rinunciato all'opzione cenetta sul cruscotto. Dentro c'era un'atomosfera da bar di guerre stellari. C'erano dei tizi, reduci di qualche rave, azzannati dalla fame chimica, che è uno stimolo superiore allo schifo che dovrebbe governare una persona che entra lì dentro. E poi c'era una coppia di sudamericani, lui e lei, e il maschio aveva la lacrima tatuata e insomma a saper leggere il libro del mondo c'erano pagine e pagine. 




Fuori c'era un rondò di questi che ora se fai sei chilometri in campagna devi farne in realtà sedici perchè ci sono rotonde a ogni piscio di cane. La rotonda era l'unico punto illuminato, con quei fari gialli che ti mangiano la nozione corrente di cromia e che messi lì sembravano una nave aliena sbarcata sulla terra. Nel rondò c'erano tre quattro ragazze in attesa. ogni tanto una entrava nel paninificio e prendeva un dolcetto o un qualche cosa. Stavano quasi sempre al telefono. Io e Dani abbiamo preso un cazzo di panino non mi ricordo ma c'era il bacon e certe salse ricavate dai gatti investiti e a giudicare dalla velocità delle auto sulla statale era prodotto a chilometri zero. Dani mi ha chiesto come funziona il commercio della carne, e non parlava di quella ficcata nei panini, che il ragazzo avrà solo tredici anni ma l'ha capito che non si può credere alla favola che nei panini di quel posto lì ci sia della carne vera. Parlava delle tipe a bordo rotonda e le guardava dalla vetrata e in un gioco di specchi e riflessi i cani guardavano noi nella vetrina dai finestrini dell'auto. Ne abbiamo parlato mentre un ragazzo obeso con delle braccia grossissime faceva le puliziie spostando lo sporco in terra da una parte all'altra della sala. Ne abbiamo parlato mentre aiutavamo Ste a montare il gioco che aveva conquistato prendendo un menù bambino, che è tutto quello che Ste concede a quei posti lì quando si tratta di scegliere e mangiare. Ne abbiamo parlato come sempre si parla tra noi che abbiamo un pusher fermo davanti al portone e un travestito barese enorme che mangia al tavolo accanto al nostro nella trattoria solita. Ne abbiamo parlato con quella bella possibilità di misurarci sul mondo senza veli morali e infingimenti. Ficcati dentro un quadro di Edward Hopper in una notte appoggiata sul bordo della pianura padana e della strada.



martedì 29 aprile 2014

Di me e della mia vita appoggiato ai banconi






Nella roulotte la luce del sole è già entrata da diverse ore. Zaff si rotola nella sua cuccetta e l'odore del caffè che gorgoglia nella macchinetta da quattro, non sembra di grosso stimolo per il suo risveglio. Ziff sta seduto sulla porta, con i piedi che poggiano sul gradino metallico che dovrebbe agevolare l'accesso a quella specie di casa ma che, visto lo stato d'usura e ruggine, funge da antifurto. Nessun ladro rischierebbe il tetano per due marumi.
La notte è trascorsa in un confuso intreccio di eventi e Ziff ha la fronte solcata da rughe recenti.
Mentre medita, smangiucchia il bordo di una piadina con l'alacco, l’unica cosa quasi commestibile che sia riuscito a trovare negli stipi sgangherati della roulotte.
Di fronte a lui la scena di sempre. Si replica.
Teddy Danubio, divo canoro sconosciuto al successo, esce sulla strada polverosa fasciato dal suo completo bianco con i pantaloni a zampa di triceratopo, gli stivaletti in plastica forellata e il mantello con le frange. Attraversa lento lo spiazzo fino all'entrata di quello che lì, pomposamente, chiamano bar e che altro non è se non un vecchio e malandato stand, reduce di antichissime feste dell'Unità.
Teddy si guarda attorno con gesti misurati dall'abitudine. Rimane sospeso una frazione di secondo, tutto calcolato, poi si decide e entra.
Al bancone, come tutte le mattine, c'è Valerio Mascella che asciuga bicchieri con una mano, versa Zabov con l'altra e regge un mozzicone di sigaro con l'altra. A guardarlo bene i conti non tornano ma da quelle parti la soglia dell’attenzione per certe cose non tocca mai quote particolarmente alte. Valerio ai lati della testa ha perso tutti i capelli e gli rimane un'unica, grossa treccia azzurra sulla fronte.
Tra le sedie, Ramolino spolvera senza grosso impegno, evitando di svegliare l'Operaio, che da sette anni dorme con la testa appoggiata al tavolo vicino al telefono a scatti. Nessuno sa chi sia e non c'è nulla che lo possa identificare, se si esclude la vecchia tuta sporca di grasso. All'inizio hanno provato con scossoni, fischi, rutti e imprecazioni, ma lui non ne voleva sapere e alla fine è diventato parte dell'arredo. Questa mattina il vento fa vibrare le pareti di lamiera e il bar è quasi vuoto, visto che quei pochi che nella zona lavorano se ne sono già andati da un pezzo e gli altri tanto vale che rimangano ancora a letto. Ci vorrebbe un sottofondo musicale almeno un tantino allegro ma l'autoradio trasformata in juke-box non funziona perché l'idrogeno si è esaurito.
Se ci fosse una porta, in questo momento sicuramente cigolerebbe, ma all’entrata ci sono soltanto delle striminzite fettucce di plastica, masticate ad altezza bambino.
Teddy Danubio entra, lento come un pistolero o come il treno Matera Bari e viceversa. Quando Ramolino lo vede, smette di far finta di spolverare e corre nel retro. Valerio Mascella cerca di non tradire l'emozione e versa disinvolto dello Zabov sul sigaro che ha in una mano, mentre con l'altra regge un bicchiere sporco che cerca di fumare a grosse boccate. La treccia gli balla sugli occhi e una sudarella gelata gli inchioda la schiena più veloce di quelle potenti colle che non fai a tempo ad aprire il tappo e già il tubetto fa corpo unico con le tue dita. Per sempre.
Teddy Danubio si accosta al bancone, mette la mano alla tasca, sfila un pettine tartarugato che con la forfora e i resti di brillantina sguscia tra le dita come un'anguilla. Guardandosi nello specchio tra una bottiglia e l'altra, si pettina, bagna le sopracciglia con abbondante saliva, fa un paio di facce da duro, ravviva, sbarazzini, i peli che si intravedono nell'ampia sbottonatura della camicia. Da ultimo, alza il colletto e si volta per andarsene. È allora che, come del resto tutte le mattine di quegli ultimi venti anni, Valerio Mascella, che fino a quel momento è rimasto a guardare con tutte le mani tremanti, esplode.
"Stronzo di un morto di fame pappone di tua madre, pezzo di merda catarroso e nero di un boia ladro infame e doppiopettoblu, rottinculo fattinbocca da quattro soldi che a sputarti addosso c'è da schifarsi! Quando cazzo ti deciderai a fregare uno specchio come tutti. Bello lui, entra, si pettina, fa i suoi porci comodi e mai una volta che faccia un'ordinazione. Se ricapiti domani ti stacco quel ciuffo e..."
"Calmati Valerio, lo sai com'è fatto, non vale la pena avvelenarsi il sangue per queste cazzate" interviene Ziff che è entrato, non tanto per godersi lo spettacolo in replica, quanto piuttosto per bere un Taffer che lo aiuti a digerire la piadina con l'alacco.
"Sarà meglio che da queste parti non ci ricapiti più, stronzo" continua Valerio "certo, lui è un divo del microfono, il genio della chitarra. Sai dove te lo metto il microfono..."
Valerio non finisce la frase e si volta verso l'entrata. Riflesso nello specchio ha inquadrato uno strano tipo. Perlomeno curioso. È rara cosa, in questa sconsolata periferia, riuscire a vedere un personaggio come quello. Si tratta di un ometto vestito con un completo grigio di cattiva fattura e che abbottona male, con un cravattone pesantissimo verde smeraldo cangiante e, a completare l'opera, un paio di occhiali della mutua. Le maniche della giacca e della camicia penzolano ben oltre il polso e il risvolto dei pantaloni finisce sotto il tacco dei mocassini con la frangia e i carciofini. Non è comunque l'abbigliamento ad attirare l'attenzione dei presenti sull'individuo. A guardarlo bene si capisce subito che è un poverocristo come loro. La nota stonata è quell'aria particolare.
"Indifeso" pensa Ziff ad alta voce.
"Cosa dici?" Valerio ha sentito benissimo ma non sopporta che gli si rubino i pensieri.
"Che strano tipo indifeso" incalza Ziff "sarà meglio avvertirlo di stare attento. Da queste parti, uno con la sua faccia, non respira per molto."
"Io mi faccio i cazzacci miei" Valerio espone con disinvolta finezza la sua visione del mondo "basta che beva qualcosa, poi per me può anche farsi ammazzare, pisciare nel posacenere, addirittura pettinarsi."
Il tipo è gravato dal peso di alcuni grossi volumi. La cosa sembra costargli un certo sforzo. Le copertine recitano attraenti canti delle sirene in quel caffè di fini intellettuali: Le Meraviglie del Mondo Sommerso, l'Enciclopedia del Bricolage, l'Universo Sconosciuto, i Programmi della Televisione per i Prossimi Trent'Anni.
L'ometto si avvicina a un tavolo e posa i volumi. Il tavolino, a cui manca una gamba, si ribalta con fragore e i libri cadono nella polvere, che è così spessa che sembra di camminare su un campo da tennis. L'Operaio, scosso dal clamore, alza la testa dal tavolino e guarda l'orologio, che nel corso degli anni ha studiato da contachilometri e se n'è andato dalle parti di Arese a convivere con una meridiana ombrosa ma piena di soldi. La cosa non scompone minimamente l'Operaio che, dopo aver consultato il polso nudo, si alza, va verso la cassa, paga, chiedendo lo scontrino a un Valerio che definire stupito è poco; infine esce e a poco a poco scompare verso San Pennacchio.
Intanto il buffo ometto dei libri ha raccolto la sua mercanzia e l'ha appoggiata alla peggio sul bancone.
"Una camomilla, per piacere."
A Valerio pare che, per quel giorno, nulla più possa stupirlo. Si è perfino già dimenticato di Teddy Danubio.
"Una camomilla come?" Valerio interroga lo strano personaggio guardandolo con occhi torvi, resi strabici dalla lunga treccia che continuamente gli balla sulla fronte.
"Una camomilla..." l'ometto esita con la paura di fare una brutta figura "...una camomilla bestiale."
È difficile calmare Valerio. In un accesso di riso convulso scivola sotto il lavandino e viene soccorso da uno scarafaggio.
Intanto l'ometto, rosso in volto, è andato a sedersi a un tavolino sano e si tiene la testa tra le mani. Ziff viene preso dall'impulso irresistibile di andare a sedersi vicino a lui. Pensato e fatto.
"Scusalo, fa così ogni volta che gli si chiede una camomilla bestiale" cerca di minimizzare Ziff "posso chiederti cosa fai da queste parti?"
"Vendo enciclopedie."
La cosa è ancora una volta molto comica, ma il tono dell'ometto fa passare la voglia di ridere a Ziff.
"Scusa se mi intrometto negli affari tuoi, ma questo non mi sembra il posto giusto."
"C'era questa zona da coprire e, visto che nessuno la voleva, l'ho presa io. Tanto per me, finché dura, una cosa vale l'altra."
"Cosa intendi dire."
L'ometto si chiude a riccio, diventa rosso e comincia a dondolare la testa. Si vede che ha voglia di parlare con qualcuno ma non sa da dove cominciare. Ziff è quello che gli ci vuole. Dopo un bicchiere che, passate le prime reticenze, trova buona accoglienza nello stomaco dell’ometto, l'atmosfera si rilassa e, un poco alla volta, il tipo prende a raccontarsi, come del resto succede a tutti quelli che parlano con Ziff.

Ma questa è un'altra storia, com'è sempre un'altra storia.





lunedì 14 aprile 2014

Sopravvincere





Forse l’ho già detto ma piuttosto che andare a rileggermi tutto mi ripeto. Quando c’è stato il terremoto in Friuli, sei maggio del millenovecentosettantasei, non avevamo più una casa perché la proprietaria, una che da piccolo mi faceva paura, aveva approfittato del casino e diceva che lei era in stato di necessità e non aveva più dove andare e le serviva la casa e noi in strada. Due mesi dopo il nostro appartamento è stato venduto alla regione e dentro ci hanno piazzato degli uffici. Bastardi. In ogni caso per mesi la gente ha vissuto per strada e noi, senza casa, non davamo tanto nell’occhio. Però i miei per farmi vivere meno il disagio di quel campeggio infinito, che a me piaceva molto, mi hanno mandato a Torino da Giovanni, che viveva in Corso Marconi in una casa che era davvero un campeggio perenne. Mi sono divertito parecchio e Giovanni che non sapeva esattamente come si gestisse un bambino di undici anni mi ha dato le chiavi di casa appena arrivato e i soldi per un panino, consigliandomi vivamente il buffet della stazione di Porta Nuova e raccomandandomi di portargli un qualche cibo pure a lui. In quegli anni stava incasinato con le donne, il lavoro e tutto. La sua casa era piena di libri di fantascienza, piena di libri in generale ma in quello già casa mia marcava bene. Lui aveva tutti quegli economici favolosi e ciancicati e io me ne andavo in balcone a leggere e a tenermi dentro una fame eterna. La mattina uscivo e giravo per Sassalvario e c’erano le puttane a tutte le ore e io proprio in quei mesi cominciavo a pentirmi di non aver prestato grande attenzione a quella bambina che d’estate insisteva per mostrarmi il culo in cambio di una sbirciata al mio pisello e io l’accontentavo e me ne restavo lì a fissare quelle chiappe come un televisore spento. Però quelle puttane lì più che proiettarmi nella nuova dimensione erotica prepuberale mi sbalzavano indietro all’infanzia più buia, quella delle megere delle favole che chiudono i bambini nelle gabbie per ingrassarli e venderli ai comunisti. Giovanni stava in uno degli ultimi condomini di Corso Marconi, dalla parte del Valentino e sullo stesso marciapiede c’era un canaro, che vendeva pure gli animali e io passavo e guardavo dalla vetrina questo tizio che cotonava i barboncini e pensavo al buon soldato Sc’vèik che avevo letto nell’edizione Feltrinelli con la copertina gialla. Trovato a casa di mio padre. Ad Anzio. I canguri, era il nome della collana ma era anche il nome che gli davo io per capirmi con mio padre e credevo fosse una cosa del nostro lessico familiare e quando anche oggi vedo un Feltrinelli col marsupiale a simbolo penso che ci hanno copiato l’idea. In quella serie ho letto anche il compendio del capitale di Cafiero ma solo per ritrovare le atmosfere dei racconti di mio padre che mi descriveva questo nobile pugliese rovinato dall’idea. Avevo dieci anni e se vi dico che tutto mi era chiaro mi cresce il naso. Senza contare che sospetto che mio padre quel libro lì non l'abbia mai letto e tutta la storia che ci montava sopra deve averla rubata al Bacchelli del diavolo al pontelungo. Questo però l'ho sospettato solo da grande e mio padre è uno che racconta un sacco di storie e a volte cade in contraddizione ma io me lo imparo a memoria pure ora che sono cresciuto e a tavola gli rifaccio il verso e ridiamo. Come al solito esco dal tema. Dicevamo che bighellonavo davanti alle vetrine della toelettatura per cani e avevo questa fissa per gli animali e per i libri di animali e per i negozi di animali e volevo fare il veterinario e quando mia mamma m’ha detto che dovevo laurearmi ho pensato che era meglio fare il guardiano dello zoo. M’avessi ascoltato da piccolo. A questo punto mi gioco l’asso nella manica che convincerà anche i più dubbiosi che a me devono darmi le chiavi della città di Torino, che da sempre sono stato attento a tutto quello che accadeva, pur senza viverci, e svelo che da piccolo frequentavo molto il giardino zoologico e rimanevo un sacco di tempo a guardare l’ippopotamo con la bocca spalancata. Un giorno Giovanni mi ha telefonato, anzi l’abbiamo chiamato noi dalla cabina, che credo che siamo stati l’ultima famiglia italiana a mettere il telefono in casa e io chiamavo sempre dal telefono del pronto soccorso del Policlinico che era vicino. Insomma Giovanni mi dice questa storia che l’ippopotamo è morto perché una bambina gli aveva scagliato il Cicciobello nelle fauci spalancate e quello si era sentito male che, a dispetto della mole, sono bestie delicate e, siccome io non mi ero laureato veterinario, non s’è potuto fare niente. Ci sono rimasto male e approfitto per dire che mi piacerebbe conoscere quella bambina che sarà a spanna mia coetanea e la guardo in faccia e dico ma perché gli hai lanciato il Cicciobello e già me l’immagino che quella dice che si era spaventata e io le credo. A quell’epoca una bambina col cavolo che si liberava così dell’ambito bambolotto. Magari era Cicciobello Angelonegro che aveva avuto meno successo e allora è un altro paio di maniche. Ora, con la cosa del razzismo, non lo possono produrre, che dovrebbero dire Angelonero e sembra una roba da film horror che evoca morte e devastazione. Per capirci andate a leggervi l’Apocalisse e i cavalieri della medesima che ne combinano di tutti i colori. Con questo però non voglio millantare dimestichezza con le sacre scritture che per quello che mi riguarda sono qui a cimentarmi con l’ennesimo vangelo apocrifo. Anzi vi confesso che non credo in dio così ci togliamo l'ennesimo dubbio. Spesso non credo nemmeno a Ste, che è bugiarda matricolata, ma sul fatto che esiste non ho molti dubbi visto che io porto i soldi a casa e lei li spende in belletti, profumi e gorgonzola di Novara. Soprattutto quest’ultimo.
Le mie passeggiate da piccolo per Sassalvario mi piacevano molto e guardavo dentro al panettiere e pensavo che i grissini dovevano essere proprio buoni ma non avevo il becco d’un quattrino e passavo oltre. Una volta Giovanni, che mi appioppava assurde commissioni per un bimbino di dieci anni, mi ha mandato alla farmacia di via Gaetano Bresci a comprare del carbone vegetale e una siringa da insulina. La tipa col camice bianco mi ha guardato come si guarda un bambino drogato e pure scorreggione. Mi è andata di culo che quella volta lì a Giovanni gli erano avanzati dei preservativi sennò li aggiungeva alla lista e facevo bingo.
Certe volte mi spingevo fino in via Po, tutto a piedi, e guardavo le vetrine e tutte le pasticcerie e insomma mi divertivo proprio. Un giorno, l’ultimo prima di tornare dai miei, ho visto una bancarella al mercato che vendeva ovviamente animali e mi sono comprato due tartarughe di terra che sono ancora in ottima salute a distanza di quasi trent’anni. Nel viaggio le avevo sistemate in una scatola di cartone con la sabbia del gatto e stavo con l’angoscia che il bigliettaio mi scopriva e mi faceva pagare il biglietto tariffa tartaruga. A un certo punto queste bestie hanno preso ad agitarsi e scavavano e da un buco della scatola ha cominciato a cadere sabbia di gatto. Sulla mia testa. Le persone dello scompartimento mi hanno fatto notare la cosa e io rimanevo lì, a guardarli con gli occhi sbarrati e senza proferire parola. Metteteci che viaggiavo da solo sulla tratta Torino Mestre e che mi trascinavo dietro un monopattino di legno che era il regalo per mio fratello e va già bene che non mi hanno consegnato alla Polfer di Desenzano.
Poi qualche anno dopo alla trasmissione che si chiamava Samarcanda si vede Sassalvario e io quasi mi commuovo a vedere quelle strade note. Mi sentivo nel cuore della notizia e quelli a dire che era tutto una merda e non lo voglio mettere in dubbio ma a me sembrava che ci doveva essere stata una qualche epidemia di cattiveria e tutti quei ceffi quando passavo io dovevano essere in pausa pranzo. Invece mi confermano che erano cazzi anche allora ma a me non m’era parso. E allora Giovanni era proprio fuori a mandarmi in giro senza pensiero o forse già davo l’impressione di quello che sopravvive sempre.