domenica 30 luglio 2017

IL PASSO DEL COGUARO






L'enoteca si chiama “Il Coguaro”: Non ci è mai venuto in mente di chiederne il motivo. Siamo gente che pratica la plausibilità come stile di vita. E poi, in quel locale lì, domandare è scortesia. Lo capisci guardando le facce e, meglio, i tatuaggi distribuiti a casaccio sulle braccia degli abituali appoggiati al bancone. Disegni sulla pelle fatti alla buona, un ago e l'inchiostro rubato a una biro. Graffiti epidermici fatti nella mezza ombra di qualche cella del regno mentre si resta a scontare qualche innocenza fraintesa. Mille anni prima di questo e di quello e di tutto. Quando il mondo era ancora in bianco e nero. Braccia di maschi vecchi, Braccia di femmine vecchie, storie vecchie portate sulla pelle che casca sblusata sull'anima e sulle ossa. L'albo da colorare di un popolo basso, armato di una grammatica storpia che governa aliti in bonaccia di parole. Braccia e pelle e disegni stanno lì a regalarti una sorta di cappella sistina delle maledizioni a un dio qualsiasi. Federico lo chiama il discount dell'umanità e, mentre lo dice, troviamo anche noi posto nello scaffale di competenza, nelle offerte speciali con la data di scadenza taroccata. E le facce lì dentro sono un carnevale dipinto da Ensor e pochi denti nelle bocche e occhiali aggiustati con il nastro isolante. In un angolo c'è la chitarra che tiene in tiro sei corde uguali che fanno più stendino che arte. Sei MI cantino impiccati alla disperata e annodati come cime di nervi saltati alla bitta del molo ultimo.

La vita di un uomo è leggera d'ombra ma questo non le impedisce di colare a picco.
Aggrappati al relitto del bancone si beve spalla a spalla con il naufragio degli altri ed è furia di buttarsi in gola il nero denso del pintone per restare a galla ancora. Quante volte sono partiti e un treno valeva l'altro, un'occhiata era coltello e non c'era mai dono e si godeva del rubato. Quante volte si sono sentiti immortali e già morti e vittime e boia e fuggire gli sbirri e non avere paura mai tranne quando c'era da avercene sul serio. Quante volte hanno unito carne alla carne, con la rassegnazione dell'acqua che passa dal tubo crepato e con l'ingiuria di qualche maledetta nostalgia. “Mangio quello che riesco a pescare” dice quel clone tisico di un cantante da balera invecchiato precocemente dalla gonorrea e con le dita macchiate di nicotina. “Mangio quello che riesco a pescare”, come a dire non ho bisogno di nessuno. “Mangio quello che riesco a pescare”, come a dire mi accontento e ho giorni avanti e dietro da guardare senza dar credito all'attesa. “Mangio quello che riesco a pescare” e se pensi che questa città e tenuta alla larga dal mare da un patto tra alpi e appennini e l'unica acqua che ci corre dentro è quella dei fiumi avvelenati, compreso il padre di tutte le acque dolci italiche, riempito di pesci siluro che se li mangiano all'Est nel nome di una miseria che è quasi un marchio registrato nei secoli. E ni cosa peschiamo noi, di che cosa campiamo? Lì a quel bancone ci fanno posto e ci salutano come ospiti di pregio. Il vino è buono, ottimo. A versarlo sono lui o lei, una coppia uscita da una tela di Kokoshka che fa il verso sarcastico a Botero ma più morbidi e con un sentore di mediterraneo. Lui dal profondo Sud, lei donna di Fiandra, come certi tessuti di pregio che si portò nel corredo mia madre e che non uscivano mai dal baule attendendo un'occasione che non venne mai. E il vino è buono, se puoi pagare il giusto è di pregio sul serio e te lo versano con competenza e godono a spiarti la sorpresa in bocca e nel viso. E poi la chitarra e cantare cose che non avresti sospettato d'averci in gola e una sera io e Federico, con altri due usciti da una decorazione di un carretto siciliano, ci siamo scoperti a sapere tutta Self Control di Raf e per fortuna lì si può vivere che a nessuno scappa di filmare e taggare come fanno quelli della vita altra. Complice un vino sardo che ti rubava alle pieghe amare di quei giorni si cantava Raf e Baglioni.


Una sera di inizio estate, c'era appena stato un acquazzone e stavamo lì in bilico su un Vermentino. Fuori dal Coguaro. Fuori dal giro che conta. Fuori. Il cinema porno di fronte l'hanno chiuso ed è un peccato. Pareva tutto così in armonia. Arriva questo basso e secco con la tuta da lottatore di strada e il borsello e un cane tipo volpino consunto, con un impermeabilino rosso addosso e puzzo di bestia bagnata. “Mi tieni un attimo il cane che devo correre da quel mio amico” e indica verso uno spazio astratto verso la vecchia fabbrica del Lingotto. Prendo in mano il guinzaglio unto e il cane ringhia e puzza e ha l'impermeabile tutto storto che quasi lo strozza. Il tipo attacca a correre. Non l'abbiamo più visto.






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